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Il mondo impotente davanti ai fuochi di Gerusalemme

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Il mondo impotente davanti ai fuochi di Gerusalemme

I nuovi scontri in corso in Medio Oriente tra Israele, Hamas di Gaza e palestinesi a Gerusalemme rappresentano insieme, come sempre nella millenaria città, cronache di giornata e ancestrali problemi storici, violenze militari e di piazza, camarille politiche che da lontano, con astuzia, sfruttano le rauche passioni di strada. Hamas ha bombardato con una cinquantina di razzi, secondo il quotidiano Usa Washington Post d’intesa con gruppi jihadisti, colpendo dentro Israele come non accadeva da tempo, dopo che la polizia israeliana aveva ferito centinaia di palestinesi, che protestavano per gli sfratti nel quartiere della moschea di al-Aqsa, area sacra sia a musulmani che ebrei.

Il comando militare di Israele ha ordinato una rappresaglia aerea, secondo il portavoce Jonathan Conricus, per “dare una lezione ad Hamas”. Da Gaza, il Ministero della Salute denuncia adesso 20 morti, tra cui nove bambini, e 65 feriti nei bombardamenti, mentre un civile israeliano è rimasto ferito da un missile antitank, non lontano dal confine. Il premier di Israele, Benjamin Netanyahu, sostiene “Non tollereremo attacchi sul nostro territorio, sulla capitale, i cittadini i soldati. Chi lo fa pagherà” e fonti militari lasciano presagire nuovi raid.

A innescare il conflitto, nelle ultime due settimane, le manifestazioni di militanti israeliani, spesso arrivati dalle colonie del West Bank, nelle zone palestinesi di Gerusalemme, con risse, vandalismi, slogan “Morte agli arabi”. Lo sfratto comunicato a numerose famiglie palestinesi a Est Gerusalemme, nel quartiere Sheikh Jarrah, riaccende la tensione, mai del tutto spenta. La zona è denominata in ricordo dello Sceicco Jarrah, leggendario medico del Saladino, nel XIII secolo, che sarebbe sepolto nei pressi, e a lungo è stata abitata dalla borghesia araba, con residenti celebri come lo studioso e diplomatico libanese George Habib Antonius o il premio Pulitzer americano Kai Bird, cresciuto su quella collina. Territorio, come sempre da quelle parti, che parla a culture e fedi rivali e viene quindi conteso palmo a palmo dalla guerra dei Sei giorni nel 1967, quando venne occupato dagli israeliani.

Il governo di Netanyahu aveva proibito le marce dei coloni di destra, che celebravano l’entrata delle truppe israeliane a Gerusalemme Est, ma cortei spontanei sono arrivati comunque, fino al Western Wall, che le vecchie guide turistiche chiamavano “Muro del Pianto” e gli ebrei invece Kotel Ha-Ma’aravi. Al tempo dei social media e dei video ubiqui, le scene degli insulti, la polizia a cavallo, le granate antisommossa, il colono che dice in diretta “qui rubo io, se no ruba qualche altro comunque” hanno esacerbato le violenze nella già difficile primavera di pandemia.

Come sempre in Medio Oriente guerre, terrorismi, manifestazioni di piazza e conflitti sono ribalta sanguinosa dietro la quale un defatigante, astuto, ipocrita e spesso impotente gioco politico viene tessuto da leader, spossati dagli anni, privi di strategie reali e intenti a guadagnarsi ancora un pugno di giorni al potere.

Benjamin “Bibi” Netanyahu, assediato dalle inchieste della magistratura, incapace di rilanciare una carriera pubblica iniziata nel 1988 come deputato, insabbiato nel tentativo di varare un governo stabile, scettico sulle alleanze, è invece maestro nell’alzare la cortina fumogena degli scontri, per ottenere un diversivo e guadagnar tempo sugli incerti, e divisi, rivali al parlamento Knesset. Ma quel che resta del governo palestinese non è meno alle corde, sfiduciato dalle nuove generazioni, più attente alle perenni saghe della corruzione che non alle gesta del vecchio Arafat. L’autorità palestinese proclama ancora un governo simbolico nei territori occupati, ma è ormai impopolare nel West Bank e detestata a Gaza dai miliziani di Hamas.

Colta di sorpresa dai “Patti di Abramo” che, sotto la presidenza repubblicana di Donald Trump, Israele, Stati Uniti e Emirati Arabi hanno firmato un trattato per la collaborazione economica e diplomatica, i palestinesi hanno visto d’incanto rompersi il sogno delle Due Nazioni, gli accordi invano sanciti dalle Nazioni Unite per il ripristino dei confini pre 1967 e il legame che li univa al mondo arabo. Assistere alla scena del ministro degli Esteri degli Emirati Andullah bin Zayed al Nahyan, del suo collega del Bahrain Abdullatif bin Rashid al Zayani che firmano il 15 settembre del 2020 con Netanyahu, sul prato della Casa Bianca sotto lo sguardo vigile di Trump, un patto che di fatto riduce il peso politico della vecchia Olp, ha reso ancora più anguste le chance palestinesi. Servirebbero una ripartenza strategica, una nuova leadership capace di consenso popolare e un partner politico in Israele che adesso manca, ma che in avvenire potrebbe riapparire.

Molti avevano dunque sperato che l’amministrazione del neopresidente democratico Joe Biden potesse azzerare i giochi, ignorando i Patti di Abramo. Invece, come anticipato su Huffington Post durante la campagna elettorale, Biden è uomo pragmatico e non intende ribaltare il suo piano sociale ed economico anti Covid negli Usa per effimere dottrine di politica estera. È rientrato negli accordi sul Clima di Parigi e nell’Organizzazione Mondiale della Sanità, precipitosamente abbandonati da Trump, ma non ha fretta nel riaccodarsi alle intese con l’Iran a proposito di energia nucleare, ritiene che i Patti di Abramo siano acquisiti e vadano integrati al più con successivi negoziati, capaci di includere i dimenticati palestinesi.

Per questo dalla Casa Bianca, sui nuovi scontri a Gerusalemme e Gaza, nulla è finora venuto se non un generico appello “a tutti i contendenti” a deporre le armi e tornare al tavolo della trattativa. Senatori di sinistra, come i rivali per la nomination democratica Bernie Sanders e Elizabeth Warren, incalzano il presidente perché fermi Netanyahu, senza esito. Biden, e il suo segretario di Stato Anthony Blinken, son persuasi che, come tante volte in passato, i fuochi si spegneranno, ma non tutti sono del loro parere.

Tre generali israeliani, in un appello di aprile, hanno ammonito sul precipitare degli eventi, nella mancanza di un piano condiviso, con Hamas sul piede di guerra, Netanyahu concentrato su se stesso e i palestinesi alla deriva: i tre comandanti invocano la mediazione di Biden, che la Casa Bianca non sembra voler offrire. In queste ore, la collazione dei pareri dei maggiori esperti al Council on Foreign Affairs, Brookings, Carnegie, lascia temere che non ci sia, con Biden concentrato sui guai interni, una nuova piattaforma negoziale. Israele, Hamas, palestinesi sono soli uno di fronte all’altro, senza intese vicine, nel perenne alternarsi di stagioni di guerra di posizione e guerra di movimento, senza mai pace stabile

Gianni Riotta
[ HuffPost ]