LA TURCHIA SECONDO GLI USA [di Dario Fabbri]
L’amministrazione statunitense considera grave ma non gravissima la crisi con la Turchia.
Certo, Washington avrebbe preferito che Ankara non acquistasse il sistema antiaereo S-400 dalla Russia. Per questo, quasi in automatico, il Pentagono ha sospeso la partecipazione del paese dal programma di acquisizione dei caccia F-35. Ma vuole evitare che la situazione diventi irrecuperabile, sebbene l’applicazione di sanzioni contro “l’alleato” sia pressoché inevitabile perché prevista da una legge del Congresso (Caatsa).
Gli Stati Uniti sanno bene che la Turchia non tornerà a essere il satellite che è stato fino a vent’anni fa, ma sono altresì consapevoli della ragione profonda nell’acquisto degli S-400, dell’eccezionale utilità di Ankara e dell’impossibilità di una sua alleanza con la Russia. La superpotenza comprende che il paese necessita del sistema antimissilistico soprattutto contro attacchi provenienti dall’Iran (e dalla Grecia), approccio in sintonia con la sua tattica applicata al Medio Oriente.
Così, Erdoğan resta fondamentale per impedire a Mosca di attraversare i Dardanelli, ruolo che è conseguenza diretta della cronica ostilità turco-russa, impossibile da annullare pure nella congiuntura attuale, sostanziata dalla prossimità territoriale tra i due imperi. Per cui, come previsto dalla grammatica strategica, tra Washington e Mosca, Erdoğan sceglierà sempre il soggetto geograficamente più lontano. Ovvero gli Stati Uniti, che (non a caso) intendono evitare la definitiva rottura con il Sultano.
WASHINGTON vs SILICON VALLEY [di Alessandro Aresu]
Se prendiamo in mano un bel Palantír, la pietra veggente di fattura elfica inventata da Tolkien, e vi fissiamo lo sguardo per cogliere le sfumature della geopolitica della tecnologia questa settimana, che cosa vediamo?
A parte le novità normative e incertezze sulla disciplina dei poteri speciali in Italia, soprattutto per la loro applicazione al 5G, Facebook ha caratterizzato la discussione di Washington. Sia per la multa di 5 miliardi di dollari ricevuta per violazioni della privacy che per il dibattito congressuale su Libra e le sue implicazioni sulla regolamentazione finanziaria e della stessa privacy. A parte alcune dichiarazioni dei rappresentanti del Congresso sul bello dell’innovazione, il confronto ha mostrato il nugolo normativo e di contrattazione politica che Facebook dovrà affrontare per portare avanti i suoi piani. Dovrà farlo mentre la sua reputazione è ampiamente ammaccata, nell’era della fine del buonismo tecnologico e della politicizzazione della tecnologia.
Sull’altra sponda dell’Atlantico, l’avvio di un’indagine formale antitrust della Commissione Europea sull’utilizzo da parte di Amazon di dati sensibili dei rivenditori indipendenti rientra nell’attivismo della direzione retta da Margrethe Vestager. Tuttavia, come già scritto, per i giganti digitali a stelle e strisce le azioni europee si limitano a costituire la voce di costo “Vestager”, con relativi accantonamenti e investimenti lobbistici. Senza generare cambiamenti sistemici. Che possono giungere invece dal sistema americano, soprattutto dall’azione combinata del Dipartimento della Giustizia e della Federal Trade Commission. Queste azioni, comunque destinate a influire come una spada di Damocle nelle contrattazioni tra le imprese digitali e il governo, avrebbero una copertura più forte con l’ascesa politica di Elizabeth Warren, che Peter Thiel – fondatore di Palantír e dunque proprietario di alcune sfere veggenti – ritiene la candidata democratica più pericolosa perché parla delle vere questioni economiche. Thiel ha tuonato contro i legami tra Google e gli apparati militari cinesi, accusando Big G di tradimento nazionale.
Accuse alacremente riprese in un tweet da Donald Trump, finanziato e supportato da Thiel nel 2016. Da un lato Thiel, conflitto d’interessi ambulante in quanto primo importante investitore esterno e consigliere d’amministrazione di Facebook fin dal 2005, avanza il suo contrasto con Google in ogni occasione pubblica, mentre tende a apprezzare altri giganti digitali – nell’ultimo periodo ammira Amazon per la sua “ferocia”, o forse per la serie televisiva in arrivo sul “Signore degli Anelli”. Dall’altro lato, amplifica questioni già all’attenzione dei più alti livelli militari statunitensi.
È stato il generale Dunford, capo degli Stati maggiori riuniti, a parlare di un beneficio “indiretto, anzi diretto” per l’esercito cinese dall’attività di Google, portando a un confronto che sarà sempre più stringente tra il sistema militare americano e i vertici dell’azienda californiana. Quest’ultima nel frattempo ha rinunciato al progetto Dragonfly, il motore di ricerca studiato su misura per il mercato e soprattutto il Partito comunista cinese – censura compresa.
URSULA E IL DOPO-ANGELA [di Federico Petroni]
Con la conferma di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione Europea, l’Ue si è trovata coinvolta nella delicata successione ad Angela Merkel alla carica di cancelliere della Repubblica Federale Tedesca.
La scelta dell’ex ministro della Difesa è di per sé indice di una più diretta supervisione della Germania sulle politiche comunitarie. In condominio con la Francia, che ha espresso il prossimo governatore della Banca centrale, Christine Lagarde. Inoltre, la recente esperienza alla guida dell’apparato militare secondo alcuni spiana la strada all’adozione di una Direzione generale dedicata alla Difesa in seno all’Ue. Passo possibile, tuttavia difficilmente in grado di produrre quell’esercito europeo che da qualche mese vagheggiano la stessa Merkel e il presidente francese Macron. Molto più facile che i programmi e i fondi Ue in questo ambito sviluppino competenze complementari alla priorità della Nato o volte a imbastire missioni di basso profilo nel vicinato.
Mentre l’attenzione europea si concentrava sul voto di conferma a von der Leyen, a Berlino andava in scena una partita a scacchi al termine della quale Merkel ha imposto come ministro della Difesa la propria delfina Annegret Kramp-Karrenbauer. Un posto per il quale si era fortemente proposto il ministro della Salute Jens Spahn, anch’esso in odore di candidatura al cancellierato. Il dicastero ha alta visibilità ma non è esattamente il più popolare in Germania: von der Leyen è stata inviata a Bruxelles anche perché poco amata in patria. E la Bundeswehr versa in preoccupanti condizioni dal punto di vista dell’operatività degli armamenti e del reclutamento, assai al di sotto degli obiettivi.
Andando alla guida di un settore militare senza strategia, Kramp-Karrenbauer rischia di bruciarsi in fretta le credenziali. Dettaglio non proprio secondario, che dà la misura delle difficoltà in cui è avvinto il paese più potente (suo malgrado) d’Europa.
VENEZUELA, MINACCE E NEGOZIATI [di Niccolò Locatelli]
In Venezuela lo stallo nella crisi tra Nicolás Maduro e Juan Guaidó non è stato ancora spezzato. Ne beneficia il primo, che rimane presidente della Repubblica de iure – la maggioranza dei paesi continua a riconoscerlo – e soprattutto de facto, dato che i sostenitori del suo avversario (presidente dell’Assemblea nazionale e autoproclamatosi, costituzione alla mano, capo di Stato ad interim) non esercitano alcun tipo di autorità. Questa settimana sono ripresi alle Barbados i negoziati tra regime e opposizione mediati dalla Norvegia; la ricerca del “dialogo” è il classico stratagemma di Maduro per guadagnare tempo e sfibrare i suoi rivali.
Il fronte anti-chavista deve fare i conti con la sostanziale fedeltà delle Forze armate a Maduro, l’impossibilità di mobilitare continuamente la popolazione e, nelle ultime settimane, con i segnali oltremodo preoccupanti che gli arrivano da Washington. L’idea di destinare a Guaidó 40 milioni di dollari di aiuti inizialmente previsti per l’America Centrale farebbe il gioco di chi accusa l’opposizione venezuelana di essere al soldo degli Usa; in generale, emerge dalla Casa Bianca una certa insoddisfazione per l’impasse, che rischia di indebolire la campagna elettorale di Trump 2020 in Florida. E di determinare il graduale scivolamento della questione venezuelana fuori dalla lista delle priorità dell’amministrazione.
I TERRORISTI DEL PAKISTAN [di Francesca Marino]
Anche gli osservatori più puntigliosi hanno perso ormai il conto esatto degli arresti con relative scarcerazioni del social worker più famoso del Pakistan: Mohammed Hafiz Saeed.
Il fondatore della Lashkar-i-Toiba e di una serie di altre organizzazioni satellite accusate tra l’altro di aver portato a termine l’attacco di Mumbai del 2008, è stato per l’ennesima volta arrestato due giorni fa: guarda caso, in occasione del primo viaggio a Washington del premier ufficiale Imran Khan, accompagnato dal vero premier del paese, il generale Bajwa. Che segue a quanto pare la linea portata avanti per anni con discreto successo dal generale Musharraf: arrestare per qualche tempo un terrorista vero o presunto in occasione di ogni viaggio all’estero.
È altamente improbabile che Hafiz Saeed rimanga in galera o che al momento si trovi davvero in cella. A suo carico è stata emanata una ventina di accuse, tutte per reati finanziari connessi alla ricerca di fondi per organizzazioni terroristiche; ma per molti di questi capi d’accusa Hafiz Saeed è già stato messo fuori su cauzione in via preventiva. Con ogni probabilità, al ritorno di Bajwa e Imran Khan da Washington, la solita Corte di Lahore ordinerà alla polizia di rilasciare il terrorista più famoso del paese per insufficienza di prove o per non aver commesso reati in Pakistan, come del resto è già successo.
A sostenere l’indegno teatrino stavolta c’è anche Trump, il quale ha lodato in un tweet l’arresto di Hafiz Saeed “dopo 10 anni di ricerche”. Dimenticando che nei passati 10 anni il Nostro, su cui pende una taglia da 10 milioni di dollari, poteva essere facilmente reperito a casa sua, in qualunque studio televisivo o in moschea e che ha perfino fondato un partito politico.
A quanto pare, Trump vuole assolutamente portare a casa un risultato prima delle prossime elezioni, e ha necessità assoluta di dichiarare conclusa la guerra in Afghanistan. Il Pakistan, che controlla i cosiddetti colloqui di pace con i Taliban, gioca al gioco che gli riesce meglio: il ricatto. Mettendo in atto misure cosmetiche come l’arresto di Hafiz Saeed per non far perdere del tutto la faccia agli americani, spera di incassare un’ulteriore tregua dal Gruppo di azione finanziaria internazionale (Ftaf), che lo ha messo sulla lista grigia e minaccia di passarlo sulla lista nera; e di ottenere una revisione dei finanziamenti militari statunitensi, sospesi due anni fa, e altri benefit cancellati da Trump.
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