Furono i Comitati civici, costituiti 70 anni fa da Luigi Gedda su incarico di Pio XII, a caratterizzare l’infuocata campagna elettorale del 1948 per mobilitare i cattolici in funzione anti-comunista. Ora potrebbero essere i nuovi Comitati civici promossi da Matteo Renzi, e sorti anche spontaneamente in tutt’Italia, a scendere in campo nelle europee di maggio per fare argine al populismo e al sovranismo dilaganti. E le donne, dalla manifestazione organizzata a Torino dalle “sette damine” in favore della TAV fino all’iniziativa della giornalista Carmen Lasorella alla guida della lista civica “Luci” (acronimo di “Lucani insieme”) per le prossime regionali in Basilicata, si ritrovano in prima linea da protagoniste in questa fase incerta e convulsa della vita politica nazionale.
La formazione dei nuovi Comitati civici scaturisce dalla crisi dei partiti tradizionali rispetto alla crescita delle forze anti-sistema come il M5S e la Lega. In entrambi i casi, si tratta di movimenti “personali” che s’identificano con i rispettivi leader, l’uno con Di Maio e l’altra con Salvini, sebbene il Carroccio – com’è noto – provenga da una lunga esperienza di governo al fianco di Berlusconi e tuttora governi, con risultati generalmente apprezzabili, tre grandi regioni settentrionali quali la Lombardia, il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia. Se i Cinquestelle possono rivendicare legittimamente una loro “diversità” politica, non altrettanto possono fare quindi i leghisti che ancora alle ultime elezioni politiche si sono presentati nella coalizione di centrodestra.
Quello che accomuna però i partners dell’attuale governo giallo-verde è proprio il loro populismo bifronte: più di sinistra, per così dire, nel caso del M5S e più di destra nel caso della Lega. Il primo più orientato verso le esigenze sociali, rappresentate emblematicamente dal provvedimento-bandiera del reddito di cittadinanza; l’altra più sensibile alla domanda di sicurezza, interpretata dalla politica più restrittiva sull’immigrazione e dalla riforma della legittima difesa. Ma il vero mastice che salda i due soci del “contratto di governo” è la comune avversione nei confronti dell’Europa, o meglio dei burocrati e dei tecnocrati di Bruxelles, considerati i custodi di un rigore finanziario e di un’austerità non più sopportabili.
Il fatto è che una miscela così esplosiva di populismo e sovranismo non può che nuocere in realtà proprio a quel “popolo sovrano” che si vorrebbe difendere e tutelare. Un Paese già fortemente indebitato come il nostro non può uscire dalla crisi isolandosi o addirittura staccandosi dall’Unione europea: saremmo troppo piccoli e deboli per fare da soli nella competizione del mercato globale. È un po’ come se il Sud volesse separarsi dal resto d’Italia o le regioni del Centro-Nord volessero emarginare il Mezzogiorno.
Da qui, allora, la necessità di un’Area Progressista o di un “fronte repubblicano” che alle prossime elezioni europee sia in grado di fronteggiare l’ondata populista, per fare crescere l’Europa sul piano dell’equità e della solidarietà. Ma non sono i partiti tradizionali che possono affrontare una sfida di questa portata. Occorre, appunto, che la “società civile” si mobiliti per affiancare e sostenere le forze politiche, in modo da rigenerarle con candidature rappresentative delle professioni e delle competenze, con idee e proposte originali, con progetti innovativi per costruire una visione del futuro più condivisa ed efficace.
In questa prospettiva, il “partito civico” di Renzi potrebbe anche svolgere una funzione di aggregatore e coordinatore, non tanto per guidare una tale pluralità di soggetti quanto piuttosto per farsi guidare: per attingere energie e risorse intellettuali; per assorbire e metabolizzare impulsi, spinte, bisogni. Non sappiamo ancora se l’ex rottamatore deciderà di restare nel Pd o di uscirne definitivamente. Ma è probabile che i suoi Comitati civici assumano un ruolo di forze collaterali, o fiancheggiatrici, per trainare la nave della politica italiana fuori dal “porto delle nebbie” in cui s’è impantanata, come fa un rimorchiatore con un transatlantico.
Ai tempi di Gedda, fu la Chiesa di Pio XII a chiamare a raccolta i fedeli contro il “pericolo comunista”. Oggi, a quanto pare, è la Chiesa di Papa Francesco che intende promuovere un nuovo “partito dei cattolici”, ispirato ai principi del popolarismo di don Sturzo come antidoto al populismo. Vale a dire un soggetto politico capace di coniugare l’efficienza e la solidarietà, per promuovere una maggiore giustizia e ridurre le disuguaglianze secondo l’economia sociale di mercato. Non più dunque un “partito cattolico”, unico, monolitico, confessionale, bensì una comunità di uomini (e donne) liberi che condividano la stessa cultura: cioè un insieme di principi e di valori fondati sul rispetto del prossimo, sulla fratellanza e sull’uguaglianza.