Altro che Parlamento senza maggioranza. Quello uscito dalle elezioni del 2018 ne nascondeva addirittura due. Una ha espresso il governo più a destra dai tempi di Tambroni, l’altra quello più a sinistra dai tempi di Parri. Il più sovranista e il più europeista. E sempre con lo stesso premier. Bisogna ammettere che i parlamenti, da Londra a Roma, dimostrano una notevole capacità di resistenza: lottano per non farsi sciogliere, e non gli manca certo la fantasia. D’altra parte sarebbe ingenuo pensare che in un mese la società italiana sia cambiata tanto da giustificare un tale ribaltamento.
Agosto è troppo breve e troppo caldo per una rivoluzione. Siamo più o meno quelli di prima, solo un po’ meno abbronzati (Salvini molto meno). Eppure un mese fa il Senato votava la fiducia al decreto Sicurezza bis, e ieri la stessa aula ha votato la fiducia a un governo che ha in programma di riscriverlo. Gentiloni ha appena preso posto sulla poltrona che a primavera era di Giorgetti, e la Bellanova su quella di Centinaio. Sembra di essere in Sliding Doors.
Che cosa è successo? Per spiegarlo, i politici di entrambi gli schieramenti tendono ad avvalersi, certo inconsapevolmente, della metafora con cui Benedetto Croce spiegò il passaggio dall’Italia fascista a quella antifascista: l’invasione degli Hyksos. Gli «altri», i vincitori, chiunque essi siano, sono infatti sempre degli usurpatori, alieni infiltratisi nel Palazzo con la forza o con l’inganno, cacciati i quali si potrà tornare allo spirito autentico degli italiani. Per la sinistra Salvini al Viminale è stato una «parentesi morale», finalmente chiusa; mentre per la destra Di Maio agli Esteri è un tradimento nazionale, tragicamente aperto.
Ma in realtà l’Italia di settembre è uguale a quella di luglio: piena di problemi, acciaccata e impaurita, solo un po’ più divisa, perché la crisi ha lasciato un sedimento di rancore molto profondo, aggravando la tendenza italica alla «democrazia dissociativa», in cui gli schieramenti non si riconoscono mai legittimità reciproca, e l’obiettivo dell’azione politica non è il compromesso alla ricerca delle migliori soluzioni, ma la lotta all’ultimo sangue per l’annientamento del nemico. Restano perciò intatte sul campo tre grandi questioni, una delle quali favorisce la destra, una la sinistra, e l’altra il centro (che non c’è, ma proprio per questo potrebbe prima o poi esserci). Vediamole.
#Nazionalismo
Il primo tema è il #nazionalismo. È un sentimento popolare che non si è dissolto con la chiusura autunnale del Papeete. E che anzi oggi la Meloni (evidentemente più pimpante del collega, non avendo sbagliato il pronostico sull’alleanza con i Cinquestelle), potrebbe interpretare in modo anche più aggressivo. Gli avversari tendono a presentare il nazionalismo — che si manifesta sotto le forme più varie, dalla chiusura dei porti agli immigrati, delle frontiere ai capitali, delle dogane ai commerci — come una forma di nostalgia anacronistica. Sbagliano. La destra italiana non è affatto provinciale, perché le sue idee, da Trump a Johnson, da Bolsonaro a Orbán, fanno eco nel mondo. La «grande paura», che la crisi del 2008 ha scatenato nei cittadini dell’Occidente, non è finita. La maggioranza degli italiani è ancora contraria ad accogliere tanti immigrati come in passato. Dunque per il ministro Lamorgese, e ancor più per il governo, è vitale dimostrare che si può ottenere lo stesso risultato (o quasi) di Salvini senza finire indagati per violazione della legge del mare e dell’umanità. E ha solo una speranza per riuscirci: un accordo per la distribuzione degli arrivi con l’Europa.
#Bruxelles
E qui veniamo al secondo grande tema che rimane sul terreno dopo l’agosto sull’ottovolante: #Bruxelles. Se con questo nome intendiamo la Commissione Ue, il nuovo governo ha il vento in poppa: le ha tolto le castagne del sovranismo dal fuoco. E non per un complotto, come dice Salvini. È che la destra sovranista ha perso le elezioni europee e Salvini ha fatto finta di non capirlo. Così si è incaponito a votare contro la presidenza della von der Leyen, mentre l’amico Orbán cuciva invece l’accordo con i Popolari tedeschi. Che errore. L’idea di dar vita a un governo anti-europeo e filo-russo nel cuore del Mediterraneo era lievemente azzardata, e infatti non ha retto: le vie della Cancellerie sono infinite, e perfino Trump ha salutato «Giuseppi due» come una benedizione. Infatti Di Maio si è sfilato, e su Ursula si è davvero rotta la maggioranza giallo-verde. Ma la trojka Gentiloni-Gualtieri-Amendola, che si è presa l’Europa, farà bene a non dimenticare che oltre (e sopra) la Commissione, pronta a fare sconti, ci sono i governi, i quali non fanno regali, e ancor più su i mercati, i quali fanno solo conti. La flessibilità sarà perciò l’ennesima occasione sprecata, se verrà usata per comprare consenso invece di costruire crescita.
#Centro
Infine, siccome la realtà è cocciuta, il terzo grande tema: tra governi di destra e governi di sinistra, qui non si vede più il #centro del sistema. Nessun corpo fisico può restare a lungo in equilibrio senza un centro, e a Conte non basterà fare l’equilibrista per stare in piedi.
Una possibilità è che i Cinquestelle si costituzionalizzino, si trasformino cioè da forza «contro» il sistema a forza critica «nel» sistema. Sembra essere il sottinteso che li ha spinti al governo con il Pd, e paradossalmente ha spiazzato proprio il moderato Di Maio, apparso così impietrito e poco a suo agio sui banchi del nuovo governo da far temere che non asseconderà il progetto, forse per lui troppo Elevato.
Un’altra possibilità è che il nuovo centro nasca dall’interno del Pd, Renzi si propone come il catalizzatore di un trasformismo parlamentare che più che alla durata di questo governo guarda a quella della legislatura. E ciò che resta di Forza Italia, così platealmente assente dalla piazza dell’opposizione, sembra quasi offrirsi a una nuova leadership moderata, da qualsiasi parte provenga. Infine c’è una terza possibilità: che sia la destra, a caccia degli Hyksos, a radicalizzarsi fino al punto di spaventare il grande elettorato potenziale di cui oggi dispone, tra gazzarre in Aula e saluti romani, sprecando l’occasione migliore della sua storia per prendersi il governo.
Tutto è sembrato cambiare, insomma, in questo storico agosto. Ma, ahinoi, a settembre spunta sempre fuori qualcuno che ci ricorda che la guerra continua.