I partiti a due mesi dal voto sono prigionieri della legge elettorale che hanno voluto. Il proporzionale funziona storicamente meglio in sistemi politici ad elevato coefficiente di convergenza verso il centro delle forze politiche, e meglio ancora in nazioni che hanno sperimentato col proporzionale lunghe fasi di grandi coalizioni tra popolari e liberali, o tra popolari e socialisti, come in Germania. Mentre nell’Italia attuale, in cui Pd, centrodestra a guida Salvini e Cinque Stelle hanno fatto la gara elettorale ciascuno predicando l’irriducibilità di se stesso rispetto a tutti gli altri, avviene puntualmente ciò che ha costituito il vero e non dichiarato motivo della scelta compiuto ripiegando sul proporzionale: nell’incertezza della propria vittoria, non far vincere e governare nessun altro.
Forse, in altre condizioni, sarebbe stato possibile sperare che qualche leader politico di stoffa ammettesse dopo il risultato elettorale che questa è la vera ragione dello stallo, e che dunque occorre innanzitutto pensare a una legge compiutamente e ordinatamente maggioritaria, senza gli innumerevoli pasticci compiuti ogni volta che si è messo mano a sistemi elettorali misti «all’italiana», inesistenti in nessuno dei tanti Paesi avanzati che da decenni hanno maggioritari funzionanti. Ma finora questo banale ragionamento stenta ad affermarsi. E la palla ripassa al Capo dello Stato. Nel frattempo si è capita però una cosa. Al di là delle dichiarazioni stentoree, tre su quattro protagonisti della scena politica non hanno affatto interesse a tornare a breve alle urne. Berlusconi vedrebbe ulteriormente accelerata la frana di Forza Italia. Il Pd, dilaniandosi al proprio interno, è maestro nell’accrescere i propri guai, dopo il peggior risultato storico delle sinistre alle urne nel secondo dopoguerra.
I neo eletti Cinque Stelle fanno riservatamente presente a Di Maio che in caso di ritorno alle urne anch’essi nel Nord dovrebbero fare i conti con l’ascesa prorompente della Lega. Di fatto, Salvini è tra i quattro leader quello che finora si è meno sporcato le mani: non ha rotto con Berlusconi, non si è fatto sedurre da poltrone di governo, non ha fallito in alcun incarico esplorativo affidatogli. Però da solo non può imporre né una legge elettorale diversa, né tempi ristretti per tornare alle urne. Nell’attesa di capire come e se matureranno nuove condizioni, che logicamente dovrebbero essere al lumicino, per un governo politico ma a questo punto di portata temporale e programmatica ridotta, come quello indicato ieri da Salvini tornando a rivolgersi ai Cinque Stelle che già avevano ripreso a parlare di golpe in atto (e di ritorno al referendum sull’euro, da parte di Grillo), quel che si può fare è interrogarsi sulle condizioni di contesto economiche a cui i partiti dovrebbero obbligatoriamente guardare, e che sembrano invece del tutto sottovalutare. Ma che sono sicuramente in testa alle preoccupazioni del Capo dello Stato.
Tranne il caso un voto a settembre con questa stessa legge elettorale, qualunque ipotesi di governo deve infatti assumere un orizzonte temporale che inglobi a questo punto alcune scelte economiche essenziali, cioè l’intelaiatura di una almeno minimale legge di bilancio per il 2019. La prima è quella della sterilizzazione dei 12,4 miliardi di maggiori entrate figlie della clausola di salvaguardia fiscale ereditata per l’anno prossimo dal governo Renzi, che prevede aumenti automatici di Iva e accise. A parole, tutti i partiti hanno già detto al Capo dello Stato che ovviamente sono favorevoli alla sterilizzazione. Il problema è come coprirla: su questo il Mef ha ovviamente delle ipotesi tecniche, ma il punto è verificare se per caso a cominciare da questo chi precisamente non abbia l’idea non di procedere a tagli di spesa, ma ad accrescere il deficit.
Se così fosse, si metterebbe male. Allo stato attuale, l’Italia è impegnata all’azzeramento del deficit pubblico corretto per il ciclo al 2020. Se iniziamo a credere che 12,4 miliardi di maggior deficit nel 2018 siano la miglior maniera per evitare gli aumenti Iva – che vanno evitati perché ovviamente avrebbero effetti di stretta sui consumi già deboli, e sarebbero regressivi perché morderebbero di più nel portafoglio chi ha meno reddito – significherebbe automaticamente rinunciare da subito all’azzeramento del deficit al 2020, cioè passare dal 2,3-2,4% di Pil di deficit del 2017 fino a superare nettamente il 3%.
Ma mettiamoci nei panni dei partiti italiani, che a dire il vero in campagna elettorale avevano del resto detto abbastanza apertamente di voler accrescere il deficit. Esistono fattori reali tali da indurli a credere che per l’Italia compiere una scelta in chiara violazione del Patto di Stabilità Europeo sia privo di elevati rischi? Forse, dal loro punto di vista, esistono. In effetti la Commissione Europea guidata da Juncker oggi non esprime più la maggioranza dei Paesi membri all’interno del Consiglio Europeo. Tre fatti lo dicono con chiarezza.
Non ci sarà nessuna riforma della governance europea, che sei mesi fa molti vaticinavano come espressione insieme della Commissione e dell’intesa franco- tedesca. Macron è totalmente isolato nelle sue richieste di un ministro del Bilancio europeo, come non suscita alcun vasto consenso la vecchia proposta tedesca elaborata da Schaueble, di trasformare il fondo salva-Stati ESM in una specie di FMI europeo dotato di penetranti poteri di vigilanza sulle finanze pubbliche nazionali.
La Merkel, indebolita, si trova a dover affrontare le obiezioni che vengono dal suo stesso partito contro eventuali mutualizzazioni dei nostri debiti. Il punto numero uno del lungo documento programmatico che è alla base dell’intesa tra Cdu-Csu e Spd, e cioè destinare più risorse del bilancio tedesco a favore di cooperazioni rafforzate europee, è già saltato dalla bozza di bilancio tedesco presentata dal neo ministro delle Finanze, che pure è il socialdemocrtatico Olaf Scholz.
Il secondo fatto è che anche la discussione sulla proposta di bilancio europeo per il sessennio 2021-2027, appena elaborata dalla Commissione ma che va decisa dal Consiglio Europeo all’unanimità, non è nemmeno cominciata e non terminerà prima che, nella primavera del 2019, si capisca davvero che piega prenderà la Brexit, visto che il governo May è debolissimo e sui punti concreti siamo ancora molto indietro.
Il terzo fattore è la speranza che san Mario Draghi continui nel miracolo di posporre il più possibile la fine del QE, cioè dell’acquisto di titoli pubblici da parte della Banca Centrale Eruopea. Di fatto, la settimana scorsa Draghi ha confermato che l’uscita dal QE slitta in avanti. Eppure, proprio le ragioni addotte da Draghi dovrebbero spingere i partiti italiani a non commettere l’errore di credere che più deficit sia un pasto gratis.
Ce ne sono infatti almeno tre ragioni ben più forti di quelle che inducono la politica italiana alla spesa facile. Il vero motivo per cui Draghi è prudente è l’attenuazione in corso del ritmo di crescita europeo. Nel primo trimestre la crescita UIE era attesa in un vigoroso +0,7% e si è fermata invece solo a +0,4%. E la crescita nominale dell’inflazione torna a raffreddarsi.
Il secondo motivo è che i mercati hanno iniziato in realtà a scontare l’effetto anticipato di una possibile guerra di dazi e tariffe tra Cina e Usa che sfugga di mano, e che freni la crescita del commercio mondiale che da un anno e mezzo era ripresa a ritmi sostenuti.
E il terzo è che il prossimo mese sarà decisivo per capire se i dazi Usa che colpiscono l’Europa – e noi per secondi come surplus commerciale verso Washington , dopo la Germania – verranno evitati con una difficile soluzione condivisa sulle reciproche quote e tariffe, oppure se per caso ne verrà un temibile freno alla crescita italiana, già prevista da tutti in calo comunque nel 2019 rispetto al 2018. Freno temibile davvero, visto che il maggior comparto del nostro surplus commerciale negli USA è quello dell’auto cioè di Fca, che già di suo sconta un rallentamento dovuto alle attese di nuovi consolidamenti mondiali nel settore. Ecco i maggiori elementi che le forze politiche dovranno considerare per forza, rispondendo alle domande di Mattarella su che governo «breve» siano disposti ad accettare. Non resta che sperare che pensino all’economia, e non solo alle alchimie della prossima legge elettorale, per accrescere il proprio ruolo o contenerne i danni.