La crisi è aperta. Ma sarà necessario qualche giorno, se non qualche settimana, per capire come si chiuderà: se con elezioni anticipate entro l’autunno, accompagnate da un esecutivo di garanzia; oppure con un rilancio della legislatura su nuove basi, in termini di alleanze e di programma. L’unica cosa altamente improbabile sembra una riedizione del governo Movimento Cinque Stelle-Lega guidato da Giuseppe Conte. Nonostante le manovre disperatamente tattiche con le quali gli orfani della maggioranza giallo-verde cercano di farla sopravvivere.
La durezza inaspettata e il rigore usati ieri dal presidente del Consiglio nei confronti del suo vice e ministro dell’Interno, Matteo Salvini, uniti a un paio di bacchettate nei confronti dello stesso grillino Luigi Di Maio, sono il testamento di una persona che voleva uscire da Palazzo Chigi con dignità. Bisogna dare atto a Conte di esserci ampiamente riuscito, togliendosi non un paio ma un mucchietto di sassolini dalle scarpe.
Il premier che i capi di Cinque Stelle e Lega avevano designato e presentato come mero esecutore del loro trionfale e velleitario contratto del cambiamento, alla fine esce a testa alta. E ridimensiona i presunti «padroni» della maggioranza giallo-verde. Faceva impressione osservare ai banchi del governo, seduto accanto a Conte, un Salvini nervoso, inquieto, e alla fine quasi annichilito mentre il premier, impassibile, demoliva i suoi comportamenti da vicepremier e da titolare del Viminale.
Lo ha accusato di avere esposto l’Italia alla speculazione finanziaria provocando a freddo una crisi in piena estate solo per il proprio tornaconto elettorale. Ha passato in rassegna le assenze dal Parlamento quando si trattava di parlare dei collegamenti Lega-Russia; le consultazioni parallele con le parti sociali al ministero dell’Interno; gli sconfinamenti nelle competenze di altri ministri; il sabotaggio di fatto delle trattative con la Commissione europea: tutto subordinato alle sue mire su Palazzo Chigi tramite blitz elettorale.
Con malizia, si dovrebbe pensare che se il prossimo governo prendesse forma intorno a un patto con ambizioni di legislatura tra M5S e Pd, con le «comunicazioni» di ieri in Senato Conte potrebbe diventare uno dei candidati naturali a guidarlo. Ma qui si entra nella terra incognita di una crisi dai contorni inediti. Alle diffidenze tra un partito e l’altro si sommano i contrasti all’interno di ogni forza politica. Il rischio di tenere l’Italia in sospeso mentre si affastellano le decisioni da prendere è quello che il capo dello Stato, Sergio Mattarella, vuole evitare.
Per questo, dopo le dimissioni presentategli ieri sera da Conte, ha intenzione di capire quanto prima quali sono le indicazioni dalle quali partire, senza ulteriori rinvii e perdite di tempo. Le opzioni rimangono due: o un nuovo governo che segni una netta discontinuità rispetto all’attuale, e cerchi di arrivare fino alle elezioni del prossimo capo dello Stato, nel 2022; o un esecutivo che prenda atto dell’impossibilità di trovare in Parlamento una maggioranza duratura, e dunque porti quanto prima alle urne.
Ipotesi intermedie, come quella di un governo che dovrebbe preparare l’eventuale accordo M5S-Pd, non esistono. Prolungherebbero solo la precarietà e l’opacità dei rapporti, senza assicurare un esito positivo e senza scongiurare tensioni sociali crescenti. La sensazione è che la stragrande maggioranza di deputati e senatori non voglia la fine della legislatura. Ma potrebbe non bastare. La cautela che i protagonisti stanno mostrando è dunque quasi obbligata. Conferma la consapevolezza di una situazione tuttora in bilico.
La discontinuità invocata dal Pd di Nicola Zingaretti lascia indovinare una fondata diffidenza nei confronti di Cinque Stelle e Lega; e in parallelo la consapevolezza del segretario di avere un controllo relativo sui gruppi parlamentari plasmati dal renzismo. I piani scissionistici dell’ex premier gettano un’ombra pesante sulla prospettiva di un’alleanza duratura tra Pd e M5S. Gli attacchi che i Dem hanno intensificato contro Conte sembrano fatti per scongiurare la sua permanenza a Palazzo Chigi in nome della rottura con la Lega; e per pretendere dal Movimento il «mea culpa» per quattordici mesi di «contratto».
Ma è difficile che la discontinuità possa arrivare a questo punto. Eppure, il sentiero è stretto sia per i grillini, sia per il Pd. Se restano lontani, diventeranno alleati involontari e impotenti del progetto salviniano di elezioni subito. E se si alleeranno senza convinzione, potrebbero favorire una vittoria della Lega ancora più netta all’inizio del 2020.