La Libia, per la comunità internazionale, è come un territorio Comanche, in cui scambiare la pelle dei migranti in cambio di petrolio, gas e pascoli militari dove far crescere l’erba di nuovi conflitti. Il resto sono vittime nere che nessuno reclama e tante chiacchiere. L’inutilità della conferenza libica di Palermo si percepisce dall’assenza in blocco dei leader internazionali, fatta eccezione forse del premier russo Medvedev, che Putin usa come un jolly quando non vuole calare l’asso Lavrov.
Nessuno, tranne l’Onu, madre di tutti i fallimenti, ha intenzione di metterci il cappello sopra e presenta il piano già esposto a New York al Consiglio di sicurezza dall’inviato Ghassem Salamè. I capi veri stanno a Parigi per l’incontro Putin-Trump, a margine delle celebrazioni della vittoria nella prima guerra mondiale. E non andrà a Palermo neppure il segretario di Stato Usa Mike Pompeo.
L’unica cosa certa è che verranno rinviate al prossimo anno le elezioni di dicembre volute dalla Francia e dal riottoso generale Khalifa Haftar, riacciuffato per la gita a Palermo da una missione a Mosca del capo dei servizi esterni Alberto Manenti che ha così evitato un flop clamoroso alla Farnesina.
Ci crede poco persino il ministro degli Esteri Moavero Milanesi che qualche giorno fa ha connotato l’appuntamento come una conferenza di «servizio», una definizione finora mai sentita nel gergo diplomatico.
Ambizioni decisamente ridimensionate per un Paese che in cambio del Tap, dell’acquisto degli F-35, di qualche barile di greggio iraniano in scadenza per le sanzioni e del Muos _ il sistema elettronico di sorveglianza di Niscemi _ aveva chiesto a Trump, con il viaggio del premier Conte a Washington, la «cabina di regia» sulla Libia. Cosa che aveva fatto anche Renzi da Obama con effetti nulli: agli americani in Libia interessa contenere l’influenza dei russi e dare la caccia con i droni a qualche capetto dell’Isis, portando a casa uno scalpo, come si faceva appunto in territorio Comanche. E questo con buona pace anche dell’onda blu nelle elezioni di mid-term americane dove non c’era un candidato che si sia degnato di dare uno sguardo decente sul mondo e che cosa fa davvero l’America dalle nostre parti.
Forse questo meeting di Palermo doveva essere preceduto da un vertice di chiarimento Italia-Francia, che da anni sono insieme alle fazioni libiche i veri protagonisti di questo derby del disfacimento nel Nordafrica e intorbidano più degli altri – in compagnia di Turchia monarchie del Golfo ed Egitto – le acque del Mediterraneo, litigando anche sulla pelle di centinaia di migliaia di migranti.
Uno spettacolo indegno per chi guardava all’Europa come alternativa alle superpotenze.
Anzi si può dire che da oltre un secolo questo match sanguinante tra Roma e Parigi si possa definire il vero «classico» della Sponda Sud. Cominciato alla fine dell’Ottocento quando con lo «schiaffo di Tunisi» i francesi si presero il protettorato tunisino ambito dall’Italia monarchica e garibaldina, continuato con lo sbarco italiano in Libia del 1911, la decimazione da parte del generale Graziani della popolazioni libica in Cirenaica (80mila morti su una popolazione di 800mila persone), proseguito con la disfatta nella seconda guerra mondiale e la successiva reazione italiana.
Mentre la Francia nel dopoguerra si inventava l’area del franco Cfa dopo Bretton Woods e cercava di mantenere la sua mano sulle colonie, l’Italia dell’Eni di Mattei finanziava l’Fnl algerino nella più sanguinosa guerra di liberazione coloniale del Nordafrica: un milione di morti. Fummo ricompensati dagli algerini con il primo grande gasdotto del Mediterraneo, il Transmed.
Persino durante gli anni ’90 in Algeria Francia e Italia qui sulla Sponda Sud si guardavano in cagnesco: i nostri servizi avevano (e hanno tuttora) un’ottima collaborazione con i generali algerini. Non è un caso che il premier Conte sia appena andato ad Algeri dove con le elezioni presidenziali del prossimo anno sta per cominciare la corsa alla successione all’anziano e malato Bouteflika.
I francesi tutte queste cosette se le sono legate al dito e non perdono occasione per una rivincita.
La più recente opportunità francese è stata la guerra di Sarkozy a Gheddafi del 2011, dopo che la Francia aveva visto cadere il suo alleato storico Ben Alì (ci rimise il posto la ministra degli esteri francese Alliott-Marie) che per altro era stato insediato da un colpo di stato medicale dei servizi italiani che avevano liquidato negli anni Ottanta il leader storico Bourghiba.
Per l’Italia la caduta di Gheddafi è stata la peggiore sconfitta dalla seconda guerra mondiale: soltanto pochi mesi prima, il 30 agosto 2010, il Colonello veniva omaggiato a Tor di Quinto da 5mila dignitari della repubblica, politici e uomini d’affari, euforici per la firma di decine di miliardi di contratti. L’ondata migratoria ha poi fatto il resto destabilizzando l’intero quadro politico.
Ma la cosa peggiore è stata la decisione di accodarsi ai bombardamenti della Nato, consegnando le nostre basi militari per i raid sulla Libia ad americani, francesi e britannici. La nostra credibilità sulla Sponda Sud è affondata e per recuperarla ci vorranno anni, altro che la cabina di regia vagheggiata negli ovatti corridoi romani. Siamo di «servizio» come dice il ministro degli Esteri, cioè apparecchiamo la tavola per la spartizione delle risorse in territorio Comanche dove un tempo, con Andreotti, Prodi, D’Alema, l’Eni e il baciamano di Berlusconi, eravamo gli ospiti d’onore sotto la tenda del Capo.