
Non sappiamo né il giorno né l’ora, ma Eugenio Scalfari, 96 anni, ha scritto su “Repubblica” che il suo viaggio volge al termine: “La salute del corpo e della mente è buona, la capacità di lavoro non è diminuita e la fantasia è sempre quella che mi ha tenuto compagnia per tanti anni, conducendomi a progettare il futuro e spingermi in nuovi sentieri da esplorare e percorrere. Eppure sento che il viaggio volge alla fine”.
Ho letto eguali parole sul volto di mio padre, stessa età del grande giornalista, poco prima del suo addio. Ho ascoltato eguali parole dalla voce di Aldo Masullo, il filosofo napoletano che a 97 anni, poco prima di salutarmi, leggeva ora Manzoni ora Leopardi, ora Leopardi ora Manzoni, e scriveva chino sui fogli con il mare di Napoli negli occhi. Ascolto eguali parole da Franco Ferrarotti, 94 anni, prima cattedra di sociologia in Italia, che mi ricorda “di essere ormai giunto al capolinea”. Avverto eguali sensazioni nelle corde gentili di Eugenio Borgna, 90 anni, psichiatra che conosce il dolore e il finale, il dolore del finale.
Soltanto da un uomo non ho ascoltato eguali parole, soltanto da un uomo non ho ascoltato la parola fine, la parola capolinea: Emanuele Severino. L’ultimo grande filosofo italiano, scomparso l’anno scorso a 91 anni, aveva una filosofia e quella filosofia non contemplava la parola fine, la parola capolinea. Contemplava la parola eterno. Tutto è eterno. Non si viene dal nulla e non si finisce nel nulla. Uscire dal cerchio dell’apparire non voleva dire, per Severino, divenire un nulla. Se l’essere è, ogni essente è eterno.
Ma Severino non basta. La mente di chi non è più giovane, la mente di chi constata l’improvvisa debolezza del corpo, sente la morte, percepisce la fine. C’è chi dispera, chi addirittura sceglie di anticiparla, per evitare atroci sofferenze, e chi, come Scalfari, pur avvertendo che la fine è prossima, pur osservando gli ultimi granelli della clessidra scivolare via, pur misurando gli attimi ancora concessi, onorano la vita e il pensiero con lucida passione, regalandoci riflessioni profonde, messaggi di speranza, inviti a restare ancorati al giorno di luce, non per allontanare il buio e la morte, ma per essere dentro il mondo con totale pienezza e presenza fino all’ultimo istante, fino all’ultimo respiro.
L’esistenza ha un limite. Non è consentito oltrepassarlo. Come insegna lo psichiatra e psicoanalista Franco De Masi nel libro che ha appunto per titolo “Il limite dell’esistenza. Un contributo psicoanalitico al problema della caducità della vita”, edito da Bollati Boringhieri, “possiamo temere la morte di una persona cara, prevederla e intuirla ancora prima che avvenga, e sappiamo che dovremo fronteggiare il vuoto che si creerà. Ma è difficile prepararci al vuoto che ci riguarda”.
Per tanti anni, osserva Scalfari, la morte è sempre quella degli altri, sembra non toccarci, non riguardarci, non essere affare nostro. Poi, spiega De Masi, “invecchiando, l’uomo si volge indietro per guardare al proprio passato e si interroga sul percorso compiuto. Se il passato è stato significativo, è più facile che si mantenga la speranza di essere tenuti vivi nella mente degli altri che ci sopravvivono per quanto di buono abbiamo saputo fare. Ma questo non basta per venire a patti con la fine della nostra vita. L’insanabile contrasto tra la caducità del corpo e lo sviluppo incommensurabile della mente ripropone in ogni momento il conflitto insolubile tra il desiderio di vita e la morte come annientamento della potenziale infinita soggettività. È inevitabile, dunque, arrivare a esperire la realtà del dissolvimento e dell’assenza di futuro”.
E per esperirla c’è modo e modo. De Masi invoca la necessità di avere “accanto a noi oggetti di proiezione reale per i nostri Sé potenziali (i nostri figli, i nostri amici, gli allievi, le istituzioni o i valori umani che abbiamo amato e per i quali ci siamo battuti)”. Guai a distruggerli. Sperimenteremmo la morte come tragedia. Per Severino, invece, la proiezione sarebbe una vana illusione. La vera tragedia non è morire o non avere accanto oggetti di proiezione reale. La vera tragedia, lui avrebbe detto follia, è non comprendere che avvicinarsi alla morte è avvicinarsi alla Gioia. Perché non si finisce. Perché non apparire più non vuol dire divenire nulla.
Grazie a questi adorabili vegliardi continueremo a non fuggire il problema, a ruminarlo come si conviene a chi desidera l’immortalità, pur sapendo che il viaggio, un certo viaggio, volge al termine. La sete di eternità che ispira l’essere umano, ha detto Karl Jaspers, non è sprovvista di significato. Valeva per mio padre, per Masullo, per Severino. Vale per Scalfari, per Ferrarotti, per Borgna, per De Masi. Vale per tutti. Nessuno escluso. Dietro tante parole, dietro tanti pensieri, dietro tanti libri, dietro tante paure, c’è quella sete. Quella inestinguibile sete.
Davide D’Alessandro
[ huffingtonpost ]