I dirigenti giapponesi dovrebbero prendere esempio da Yoshihisa Aono, il fondatore della Cybozu. Se gli uffici dell’azienda che produce software fossero a Palo Alto sarebbero piuttosto comuni, ma per gli standard di Tokyo – dove ogni giorno una marea di stacanovisti in abito nero va al lavoro in luoghi funzionali ma squallidi – sono piuttosto insoliti. Nel quartier generale della Cybozu ci sono scimmie e pappagalli di peluche. I dipendenti indossano abiti informali, scarpe da ginnastica e siedono su sgabelli sorseggiando caffè davanti ai loro computer portatili. Aono esce dall’ufficio alle 16.30 per passare del tempo con i figli. Diversamente dalla maggior parte dei padri giapponesi, va in congedo di paternità. E va addirittura in vacanza.
Per molti giapponesi lo stile di Aono è estremo, ma per molti occidentali sono bizzarre le interminabili giornate lavorative giapponesi. Si sa, i giapponesi lavorano molto, come dimostra il numero di passeggeri in stato comatoso sui treni dei pendolari. Gli uomini lavorano così tanto (o si sbronzano così tanto dopo il lavoro per combattere lo stress) che la sera non riescono a tornare a casa. Ecco perché è così facile, la mattina presto, comprare una camicia e una cravatta a poco prezzo nei negozi del distretto finanziario di Nagoya, di Osaka e della capitale.
Le giornate lavorative di 12 ore sono la norma. Le ferie arrivano con il contagocce – dieci giorni all’anno all’inizio della carriera lavorativa – e i lavoratori giapponesi, in media, ne prendono solo la metà. In Giappone il congedo di paternità è tra i più lunghi al mondo, fino a un anno. Eppure solo il 5 per cento degli uomini lo richiede, e quando lo fa di solito si assenta dal lavoro per pochi giorni. Il Giappone ha regalato al mondo l’espressione karōshi, morte per troppo lavoro.
Il sistema lavorativo giapponese è nato alla fine della seconda guerra mondiale, quando i soldati sconfitti abbandonarono le uniformi per indossare giacca e cravatta. I salariati sono diventati il battaglione d’assalto del miracolo economico giapponese, ricostruendo il paese in un’epoca segnata da una crescita sfrenata.
Le aziende avevano un bisogno urgente di lavoratori – le donne lavoravano come segretarie e una volta trovato marito, spesso sul posto di lavoro, si trasformavano in casalinghe. In cambio della lealtà assoluta, i dipendenti delle grandi aziende ottenevano aumenti di stipendio regolari, generose indennità e la garanzia di un impiego per la vita. Spesso i legami lavorativi erano più solidi di quelli familiari.
Produttività in discesa
Oggi quel modello rappresenta un ostacolo per il Giappone. La vita dei dipendenti è deprimente, soprattutto perché ormai le aziende non guadagnano abbastanza da offrire ai neoassunti gli stessi benefici e garanzie del passato.
Alle donne va ancora peggio. Quelle che entrano in un ambiente di lavoro dominato dagli uomini rischiano di perdere tutto se decidono di avere figli, perché dopo il parto è praticamente impossibile riprendere la carriera. Tante decidono di non tornare al lavoro dopo la gravidanza. Per quanto riguarda i giovani, parecchi abbandonano la vita d’ufficio per aprire o gestire boutique, caffè o altri esercizi commerciali, accettando un salario più basso pur di scampare a una vita massacrante in uffici deprimenti. Tutto questo, naturalmente, non fa bene alle grandi aziende. Il Giappone ha il più basso tasso di produttività tra i paesi del G7.
Il governo e gli imprenditori ammettono che esiste un problema, ma non riescono a risolverlo. È significativo che Cool biz, un movimento lanciato nel 2005 per convincere i dipendenti a non indossare la giacca e la cravatta al lavoro, non sia nato tanto per migliorare la vita dei lavoratori quanto per risparmiare sull’aria condizionata. Oggi i burocrati si vestono in modo informale durante i mesi estivi, ma gli impiegati di banche e uffici simili raramente osano farlo.
Conformismo e sacrificio
La pressione per creare ambienti di lavoro più vivibili sta aumentando. Dopo che una giovane dipendente del gigante della pubblicità Dentsu si è uccisa nel 2015, un tribunale ha stabilito che la causa è stata il karōshi. La vicenda ha scatenato un’ondata di indignazione e preoccupazione. Più in generale, in un’epoca in cui un’economia in espansione e una popolazione in calo creano una grave carenza di manodopera, le aziende note per le condizioni di lavoro troppo dure non riescono a trovare dipendenti.
Alcune aziende si stanno impegnando per cambiare le cose. Una consulente specializzata nel benessere dei dipendenti riferisce di non aver mai avuto così tanto lavoro. Panasonic, che nel 1965 è stata la prima azienda giapponese a introdurre la settimana lavorativa di cinque giorni, oggi permette ai dipendenti di lavorare da casa e andare al lavoro in jeans. Ma in Giappone la società è ancora dominata da un forte istinto verso il conformismo e il sacrificio.
La Panasonic ammette che pochi dipendenti sono disposti ad andare via prima dall’ufficio o a indossare i jeans se non lo fanno gli altri colleghi. I dirigenti devono dare l’esempio, come la governatrice di Tokyo, Yuriko Koike, che chiude il suo ufficio ogni sera alle 20. I dipendenti non hanno altra scelta se non quella di andare a casa. Per contrasto, dopo settimane di discussioni su un possibile cambiamento radicale, di recente il parlamento ha approvato una legge piuttosto blanda. Ora gli straordinari non possono superare le cento ore al mese, un numero enorme.
Il cambiamento sta arrivando, ma forse troppo lentamente
I giapponesi continuano a lavorare tantissimo perché quasi tutte le grandi aziende continuano a giudicare i dipendenti in base a criteri quantitativi e non qualitativi. Le promozioni non dipendono dai meriti, ma dall’età e dagli anni di servizio. La legge rende impossibile licenziare un dipendente con un contratto a tempo indeterminato.
Per migliorare la situazione serve una modifica drastica del sistema lavorativo. Soprattutto è necessario che la legge faciliti le assunzioni e i licenziamenti affinché le persone possano cambiare lavoro più facilmente. In questo modo si potrebbero modificare i rapporti tra dipendenti e datori di lavoro, la produttività aumenterebbe e gli ambienti di lavoro sarebbero meno omologati. Donne e uomini avrebbero più opportunità. Per esempio, i padri potrebbero partecipare più attivamente alla crescita della prole. Con prospettive di lavoro migliori, le coppie potrebbero avere più figli, risolvendo l’ossessione giapponese per la contrazione demografica.
I tempi sono maturi per il cambiamento. L’economia è in condizioni relativamente buone e le aziende giapponesi sono pronte ad adattarsi per essere più competitive all’estero. Eppure troppi politici e grandi imprenditori giapponesi sono ancora uomini, conservatori e prudenti, mentre i dipendenti tendono tuttora a non avanzare pretese. C’è ancora molto conformismo. Il cambiamento sta arrivando, ma forse troppo lentamente.
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist con il titolo Japan’s habits of overwork are hard to change. Traduzione di Andrea Sparacino per Internazionale