La globalizzazione è una realtà dei nostri tempi, e per stare al passo con questa realtà abbiamo bisogno di infrastrutture di altissima qualità”, ha spiegato lo scorso febbraio il premier indiano Narendra Modi durante la cerimonia per l’avvio dei lavori del nuovo aeroporto internazionale Navi Mumbai, il secondo della città. Sarà uno dei 15 aeroporti internazionali distribuiti su tutto il territorio indiano e aprirà nel 2022, quando saranno riportati a pieno regime anche 70 aeroporti regionali sinora inutilizzati o sotto-serviti. L’obiettivo è quello di quadruplicare entro dieci anni il numero di passeggeri, da 265 milioni nel 2017 a un miliardo entro il 2030: il settore dell’aviazione civile indiana cresce già del 19% e sarà presto il terzo al mondo, dopo quelli di Stati Uniti e Cina.
Poche ore prima, sempre nella capitale del Maharastra – dove è già in costruzione un ponte marino di 22 km che collegherà le due sponde del golfo cittadino – il premier indiano aveva inaugurato il quarto terminal container del ciclopico porto commerciale Jawaharlal Nehru: il più grande del Subcontinente. Un’iniziativa, quest’ultima, prevista nell’ambito del Sagarmala Programme, il progetto di investimenti infrastrutturali sui porti che dal 2003 languiva sulle scrivanie dei funzionari di New Delhi. L’idea era nata con il governo Atal Bihari Vajpayee alla fine degli anni Novanta, come equivalente marittimo del “Golden Quadrilateral” per la connettività autostradale. Il governo Modi lo ha approvato nel 2015: 100 miliardi di euro per 415 progetti, tra cui la costruzione di nuovi mega-porti di classe mondiale e l’ammodernamento di quelli esistenti, la creazione di 14 Zone Economiche Costiere, lo sviluppo della connettività portuale su strada, ferrovia, parchi logistici multi-modali, pipelines e vie d’acqua.
L’obiettivo strategico del programma è duplice: 1) Fare dei porti un volano di crescita e sviluppo, soprattutto delle comunità costiere, abbattendo i costi d’importazione (il 48% nel manifatturiero), stimolando le esportazioni per 110 miliardi di dollari e creando 10 milioni di posti di lavoro diretti e indiretti: sono 12 milioni i giovani indiani che ogni anno si affacciano sul mercato del lavoro. 2) Puntare sulla connettività per aumentare il peso regionale e internazionale di un paese che ha 7.500 km di costa, 14.500 km di vie d’acqua potenzialmente navigabili e una collocazione geografica strategica nel crocevia delle più importanti rotte commerciali marittime tra Est e Ovest. Assets che il governo Modi vuole mettere a frutto al più presto: la competizione regionale è già agguerrita, sull’onda dell’espansione cinese le grandi rotte commerciali nell’Oceano Indiano del XXI secolo si stanno consolidando, e non è detto che basti essere l’India per intercettarle, influenzarle o controllarle.
A Nuova Delhi gli occhi sono rivolti soprattutto a Pechino. Con la Belt and Road Initiative (OBOR) e i massicci investimenti infrastrutturali che questa prevede, la Cina ha incominciato a far sognare – o tremare, a seconda dei vantaggi che pensano di trarne – governi e imprese in Asia centrale, Europa e Africa, spianandosi la strada per l’espansione economica e commerciale più significativa dei prossimi decenni. E nel mare che dall’India ancora prende il nome, ogni isola e ogni atollo tropicale diventa oggi anche un porto, una base, un alleato potenziale e strategico nella competizione regionale: chi credeva fosse sufficiente guardare a New Delhi (lo Sri Lanka, le Maldive, le Andamane e tutte le altre isole dell’Oceano Indiano) ha incominciato a comprendere le grandi opportunità offerte dalle ambizioni cinesi nella regione.
Per competere con Pechino l’India deve prima di tutto essere più competitiva. Deve esserlo la sua economia, e proprio questo devono esserlo anche le sue infrastrutture. Il prezzo che l’India sta pagando per la grave insufficienza d’infrastrutture moderne ed efficienti è altissimo. Per esempio i costi logistici, che da anni incidono sul prezzo dei prodotti indiani per il 14%: in Cina non superano l’8-10%. L’evidente vantaggio competitivo di Pechino non è sfuggito al governo Modi che, a sua volta, mira finalmente a ridurre i costi del 6%.
La modernizzazione che New Delhi ha in mente non riguarda solo i porti. Il piano di sviluppo infrastrutturale messo in cantiere da Modi è un piano integrato: porti, autostrade, ferrovie, trasporto aereo, reti elettriche, approvvigionamento idrico, energie rinnovabili e infrastrutture urbane dovranno tutti essere portati a livelli comparabili di sviluppo ed efficienza. Solo così le infrastrutture dell’India del futuro potranno comunicare, essere interdipendenti, mutuamente vantaggiose e diventare il nuovo motore di crescita e competitività del Paese.
Specularmente al Sagarmala Programme per i porti, dal 2015 il governo indiano ha lanciato anche un ambizioso programma per lo sviluppo della rete stradale nazionale, il Bharatmala. Se l’India può già contare sul secondo network stradale più grande al mondo – 5,23 milioni di chilometri su cui ogni anno passa l’80% del traffico passeggeri e il 65% delle merci – il 95% delle strade è ancora locale e rurale, mentre solo il 5% è costituito da autostrade federali e statali (di queste circa un quarto ha visto la luce negli ultimi 3 anni). Con un piano di investimenti di oltre 120 miliardi di euro, il più ingente mai messo in campo nel settore da un governo indiano, il Bharatmala ha l’obiettivo di portare nei prossimi anni il ritmo medio di sviluppo della rete stradale a 45 km al giorno. Un traguardo ambizioso ma non inverosimile, considerando che nel 2014 i km costruiti ogni giorno erano 11, arrivati a 27 km nel 2017. Sono 83mila i chilometri di autostrade da realizzare entro il 2022.
Ma nel settore dei trasporti l’India può contare anche su un altro asset: la quarta rete ferroviaria più estesa al mondo che, con 8,1 miliardi di passeggeri e 1,1 miliardi di tonnellate di merci trasportati ogni anno, è uno dei settori più promettenti per lo sviluppo infrastrutturale indiano. Le ferrovie sono tanto importanti che tra il 2016 e il 2020 il governo indiano ha previsto uno stanziamento oltre 100 miliardi di euro, il 60% dei quali destinati al decongestionamento della rete, alla sua espansione e alla messa in sicurezza: ambito nel quale è stato siglato un accordo anche con Ferrovie dello Stato e Indian Railways a febbraio dell’anno scorso.
C’è un problema: gli ambiziosi piani d’investimento sulle infrastrutture messi in moto dal governo Modi sono più che mai necessari, ma costosi. Secondo le stime dell’agenzia di ricerca e rating Crisil, documentate nel primo “annuario” delle infrastrutture indiane (India Infastructure Yearbook 2017), per soddisfare i bisogni infrastrutturali del Paese tra il 2018 e il 2022 serviranno quasi 700 miliardi di euro (₹50 lakh crore), il 35% in più rispetto al capitale investito nello scorso quinquennio e circa dieci volte la cifra stanziata per le infrastrutture nel bilancio pubblico di quest’anno.
È una spesa che, da solo, lo Stato indiano non può sobbarcarsi, e per questo il coinvolgimento dei privati sarà sempre più determinante. I nodi più urgenti da sciogliere per avvicinarli sono due: lo scarso supporto che possono garantire le banche indiane – cariche di non-performing assets (NPA) che ne riducono la disponibilità a finanziare progetti di sviluppo infrastrutturale – e la mancanza di un framework giuridico e legislativo efficiente, in grado di stimolare le partnership pubblico-privato. Il problema non è sfuggito al governo Modi che, incalzato dalle promesse fatte, non tarderà (più) a prendere provvedimenti: al massimo tra un anno, forte di una probabile rielezione nella primavera 2019. È sempre stata una scelta lungimirante investire in un Paese che cresce – e continuerà a crescere – a un tasso superiore al 7% e che sulle infrastrutture sta scommettendo il proprio ruolo nel mondo: trasporti, energia e sviluppo urbano i settori che richiederanno più investimenti (quasi l’80%), ma saranno particolarmente attraenti anche i settori di strade e autostrade, trasmissione dell’energia e rinnovabili.