Giustizia ancora in prima pagina: dopo il dibattito sulla fiducia al ministro Alfonso Bonafede continuano a imperversare le intercettazioni dell’ex caso Luca Palamara, divenuto oggi la “questione morale” della magistratura e del suo organo costituzionale di autogoverno, il Consiglio Superiore della Magistratura (Csm) presieduto dal Presidente della Repubblica.
Nel frattempo l’onda lunga dello scandalo ha con ogni probabilità posto fine alla vita della giunta guidata da Luca Poniz di Area in Associazione Nazionale Magistrati (Anm) che meno di un anno fa aveva sostituito il collega Pasquale Grasso di Magistratura Indipendente. Scosse sismiche senza precedenti che scuotono le abitudini felpate del potere togato, denotandone l’ingovernabilità.
Non è un problema solo interno delle toghe: l’instabilità degli equilibri della magistratura ha rischiato di creare una crisi di governo. La vicenda di Nino Di Matteo non è stata causata dalle minacce mafiose (roba complottista per le bocche buone) ma dai contrasti che squassano le correnti.
Il ministro di Giustizia è sopravvissuto alle opposte goffe mozioni dei radicali e della destra, entrambe politicamente insensate, senza che nessuno avesse chiesto conto a Bonafede della sua vera colpa politica: la scelta di collaboratori in due posti chiave, il suo gabinetto e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), rivelatisi fallimentari.
Ciò avrebbe permesso, assai più delle fantasiose illazioni scaturite dalle tesi complottiste alla Massimo Giletti di toccare il vero nocciolo della questione morale che sta squassando la magistratura, vale a dire il potere delle correnti.
E infatti l’avvicendamento in due ruoli chiave di due esponenti di Unicost (corrente centrista) quali il capo di gabinetto Fulvio Baldi e il direttore del Das Francesco Basentini con due esponenti di Area democratica per la giustizia (sinistra), Bernardo Petralia e Mauro Vitiello, coincide esattamente con il cambio di maggioranza (determinato dal caso Palamara) all’interno sia di Anm che soprattutto del Csm in cui si riflettono gli assetti che reggono l’associazione.
L’alleanza di “destra “tra Unicost e Magistratura Indipendente guidate rispettivamente da Palamara e da Cosimo Ferri (magistrato oggi in aspettativa in quanto deputato di Italia Viva dopo essere transitato da Forza Italia e dal Pd) ha lasciato posto ad un nuovo patto tra Area, Unità per la Costituzione ed Autonomia ed Indipendenza corrente fondata da Piercamillo Davigo.
Vista la vicinanza ideologica tra questa e i Cinquestelle si può ben dire che gli equilibri politici giudiziari ricalcano oggi quelli governativi. E vi è un’ulteriore succosa similitudine: al pari del premier Conte, la guida politica dell’attuale Csm è il medesimo vice-presidente, il piddino David Ermini, nominato da una maggioranza diversa da quella formatasi oggi nel consiglio.
Questo non secondario particolare costituisce poi un nodo non sciolto ed una delle cause del conflitto in atto con ricadute pesanti sulla legittimazione dell’organo costituzionale di governo dei magistrati.
È divampata una sorta di guerra civile tra correnti e la “pistolettata di Sarajevo” all’origine è stata un ordinario procedimento per un giro di fatture false che riguardavano alcune società facenti capo all’avvocato Piero Amara ed ad un imprenditore romano con buone amicizie nella magistratura: Fabrizio Centofanti.
Dalle indagini sono emersi i contatti con il potente leader di Unicost Luca Palamara indagato dalla Procura di Perugia per il reato di corruzione in favore dell’imprenditore, cui gli atti venivano inviati per la competenza ad indagare sui reati dei magistrati romani.
Roba non economicamente eclatante, qualche regalia di non eccessivo valore. Le indagini si sono tuttavia concluse con la formulazione di alcuni ipotesi di corruzione mentre sono state archiviate alcune delle accuse più gravi a carico del magistrato romano, come quella di aver ricevuto una importante somma per determinare l’elezione ad un incarico direttivo di un collega, il pm Giancarlo Longo, a sua volta arrestato per corruzione in un diverso processo.
È significativo, per ciò che si è detto, che il reato contestato al magistrato non riguardi le sue ordinarie funzioni lavorative di pubblico ministero ma il suo vecchio ruolo di membro del Consiglio Superiore della Magistratura dal 2014 al 2018.
E il Csm ha un ruolo fondamentale negli sviluppi della questione: al consiglio infatti, nel 2018, si rivolge uno dei procuratori di Roma che indagavano su Centofanti, Stefano Rocco Fava, lamentando in un esposto presunti conflitti di interessi familiari che investivano l’allora procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone e uno degli aggiunti più importanti, Paolo Ielo.
L’accusa si è rivelata infondata ma l’iniziativa solitaria del pm, come risulta dalle intercettazioni, ha scatenato l’accelerazione degli eventi a Perugia che ha inviato gli atti della indagine su Palamara e Centofanti al Csm e la diffusione per ignota manina delle intercettazioni agli organi di stampa.
Quella prima ondata comportò l’esplosione dello scandalo e, tra le prime conseguenze, anche la caduta della nomina a procuratore capo di Roma dopo Pignatone (il posto che vale tre ministeri secondo un detto popolare) del procuratore generale di Firenze Marcello Viola sponsorizzato dal patto tra Unicost e Magistratura indipendente che guidava allora l’Anm, e il crollo di questo stesso accordo sostituito da uno nuovo tra la corrente di sinistra Area, Unicost e Autonomia e Indipendenza di Davigo.
Dunque l’indagine investe in pieno l’organo di autogoverno del terzo potere con le correnti di Anm più duramente colpite un anno fa, in particolare Magistratura Indipendente, che sulla scia delle “nuove” intercettazioni cercano di promuovere l’idea di una “grande notte in cui i tutti i gatti sono grigi”.
A voler essere onesti non è proprio così perché una poltrona gratis allo stadio o l’intercessione per un esame di un congiunto (richiesta attribuita a due membri togati dell’attuale CSM al sempre disponibile Palamara) non è esattamente la stessa cosa di quella di capo di un importante ufficio giudiziario (anche se a chi scrive è capitato di dover discutere, ad esempio, pure sul potenziale corruttivo della ripulitura di una cantina di un pubblico amministratore).
Una cosa è una raccomandazione che può integrare una caduta di stile, ma lottizzare gli uffici giudiziari del Paese è qualcosa che assomiglia assai a quel genere di reati contestati dai magistrati ai baroni universitari che si spartiscono le cattedre tra gli allievi.
Non interessa qui disquisire sul tipo di reato ma sulle prassi gravemente inquinate che regolano ormai le nomine di incarichi di estrema delicatezza. A partire dallo stesso vice-presidente del CSM che come detto ha traversato senza apparenti conseguenze il rovescio politico della maggioranza che lo aveva eletto, cosa che non sembrerebbe aver reso felicissimi i suoi vecchi elettori.
In un’intervista al Corriere David Ermini ha confermato di aver avuto il definitivo via libera al prestigioso incarico durante «una cena con due capicorrente riconosciuti e un esponente del Pd, lì (mi) dissero che l’accordo era chiuso». Un particolare emerso anch’esso dalle intercettazioni perugine.
I commensali erano un membro laico del Csm uscente, l’avvocato Giuseppe Fanfani, e i due «riconosciuti capicorrente» erano Luca Palamara e Cosimo Ferri. Ma riconosciuti da chi?
Il punto è proprio questo: entrambi non avevano ruolo e titolo per interessarsi alla sua nomina non ricoprendo alcun incarico di rappresentanza al tempo nelle rispettive correnti.
Ciò è quanto si ricava dalla lettura degli statuti delle due associazioni. Quello di Unicost attribuisce il potere di rappresentanza e di espressione della volontà della corrente al suo presidente e al suo segretario che erano all’epoca Silvana Sica e Roberto Carrelli Palombi, da cui Ermini non ha avuto alcuna via libera.
Il caso più eclatante è quello di Cosimo Ferri, già parlamentare e addirittura per tale motivo “incompatibile” con la sua stessa corrente secondo l’articolo 10 dello statuto di Magistratura Indipendente.
Per i giuristi non è esattamente indifferente il potere di rappresentanza, anzi è la base di ogni legittimazione.
Non è un problema solo di norme e regolamenti: appare chiaro proprio dalle ingenue ammissioni di Ermini che ormai il meccanismo è sfuggito di mano fino a far perdere ogni consapevolezza a chi dovrebbe essere il primo custode della regolarità formale.
L’Anm rappresenta certamente una larga fetta dei magistrati italiani come si conviene a un partito unico: tuttavia, il numero degli iscritti che nel 2011 era di 8.284 su 8.886 magistrati italiani in servizio (il 93,2%) oggi è sceso a 8.358 sul totale di 9.162, «circa il 90%» come laconicamente annota il sito dell’associazione.
In netto declino, invece, il numero degli iscritti alle correnti (di cui non si hanno cifre precise) che pure, come vediamo, si arrogano decisamente il potere di guidare e condizionare il Csm al cui vertice siede il Presidente della Repubblica.
Come scrive sulla rivista di Magistratura Democratica Guido Melis, storico e studioso della Magistratura, membro del consiglio direttivo della Scuola Superiore di formazione dei magistrati, le correnti ormai sono «ambigue articolazioni di potere, dedite, più che non alla realizzazione di un progetto alla propria autoconservazione…tanto da far sospettare che esse svolgano ormai un’attività istruttoria impropria su temi delicatissimi, espropriandone il Csm stesso che dovrebbe essere viceversa la sede delle decisioni inerenti quei temi».
Si sta verificando nella magistratura dunque la stessa deriva che ha portato alla degenerazione partitocratica dello Stato repubblicano con le conseguenze ben conosciute della affermazione di movimenti politici fortemente personalistici e leaderistici di cui un movimento come AeI di Davigo potrebbe essere un embrione. Tutto ciò non può che sollevare fondati dubbi sulla attuale legittimazione e potere di rappresentanza del Csm.
Si avverte la necessità di un rimedio e, come per la politica, ci si illude che la soluzione riposi in un qualche mutamento del sistema elettorale. Ma non può bastare se non vi è una forte ribellione della base che non si riconosce in certi metodi.
Importanti sentenze della Cassazione nell’analizzare le caratteristiche di alcune nuove forme di criminalità legate alla corruzione hanno denunciato che esse sono «una variabile fortemente condizionata dal più o meno spiccato senso civico» del corpo sociale. Il punto è proprio questo, la reazione delle componenti sane: possono i magistrati estranei a tali giochi tacere sempre in nome di un malinteso “amor di patria” o peggio per timore conformista?
«È la corrente bellezza» pare fosse il motto di Bruti Liberati, uno dei “padri” di Magistratura Democratica. Oggi è diventato l’equivalente togato del “tengo famiglia”.
Nell’inverecondo gioco al massacro che si è scatenato in questi giorni tra le varie correnti sta affogando ogni residuo di credibilità: ma lo spettacolo non è divertente, questa è la peggior crisi che la giustizia abbia mai affrontato nella storia del Paese e appare drammatica la mancanza di figure di riferimento nella magistratura, anche perché alcune delle personalità storiche e più stimate preferiscono ormai stare in disparte.
Il problema non è solo di efficienza. È una questione di democrazia per tutto il Paese. L’esempio che viene da Ungheria e Polonia dove governi autoritari si sono sbarazzati dei magistrati scomodi modificando la legge sul pensionamento o limitando l’autonomia della magistratura, se non arrestando direttamente i giudici come in Turchia, suonano da monito.
Le convulsioni di un sistema anticipano il suo crollo e certo l’ordinamento giudiziario non è mai stato così vicino come oggi a una crisi senza ritorno che è la crisi anche del paese.
Cataldo Intrieri
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FOTO ANDREAS SOLARO / AFP