venerdì, 22 Novembre 2024

INVADENZA DEL CAMBIAMENTO E GRADUALE RIPIEGAMENTO DEL PENSIERO

Giuseppe Imbesi (professore urbanistica)

Fino alla metà del novecento il vocabolario Zingarelli, peraltro molto diffuso nelle scuole italiane, definiva l’urbanistica, “edilizia cittadina”. Non c’è da attribuire un valore scientifico a questa definizione: è generica, quasi senza pathos, individua nella città il proprio carattere fondante limitandolo però all’aggettivazione di un particolare modo di costruire la casa, quale bene primario del vivere. Da qui la complementarità, la subordinazione, l’indifferenza, fino all’esclusione, che ha caratterizzato culturalmente e nel senso comune le relazioni fra le due discipline[1].

C’è una naturale relazione, non risolta, che caratterizza questa evoluzione: incide non poco nelle valutazioni possibili sul “mondo che cambia”[2].

Da una parte, com’è noto, l’urbanistica sottende ed è protesa allo studio di molti dei caratteri della nostra vita individuale e sociale: l’abitare, il muoversi, il lavorare, il relazionarsi nello spazio: si presenta così con orizzonti molto vasti e fascinosi. Li risolve un po’ schematicamente con classificazioni dei fenomeni e sistematizzazioni parziali delle relazioni in essere (come dei rapporti tra centro e periferia, della conservazione e trasformazione degli habitat, della protezione assoluta dell’antico e della possibilità del consumo ad libitum del nuovo).

Dall’altra, è pratica progettuale ed operativa che chiede di prospettare proposte e soluzioni di problemi adeguate ai tempi.La esplicita attraverso piani e progetti. Prende le mosse dalle “sicure” affermazioni classificatorie. Si arresta di fronte a confini sempre più impegnativi ed oggi, invece di offrire comprensione e aiuto nel cambiamento, soffre dei contrasti sempre crescenti e dei vincoli continuamente mutevoli che comportano per il loro “governo”: la casa, la città, il territorio, l’ambiente.

Le città, gli ambienti, i “luoghi” sono da sempre fatti immanenti nella vita degli uomini. Si proiettano nel conscio e nell’inconscio dei loro comportamenti sia quando ne definiscono le forme di stanzialità che quando ne accettano la loro compatibilità con le mobilità random nel mondo. Forniscono le ragioni del sopravvivere, dell’essere, del potere, del volere. Scandiscono i principi sulla cui base si formulano le scelte (semplificando il linguaggio: la “sinistra” e la “destra”, l’atteggiamento “progressista” e/o “riformatore” e quello “conservatore”), si prendono le decisioni (in modo “oligarchico”, “partecipativo” o altro) o, più semplicemente e comunemente, si agisce per ottenere il proprio spazio vitale o per garantirsi, ed è peggio, un lucro (la vicenda dell’abusivismo, nota a tutti, si alimenta di entrambi: dal bisogno individuale di un “tetto” alla “protervia” del possesso della terra).

Nell’attuale congiuntura, la “complessa” essenza, implicita in queste categorie (importanti e certo ineludibili della vita) si sta misurando con la“complicata”, per certi versi impalpabile, capacità trasformativa di bisogni e consumi che sono in grado di esprimere le nuove tecnologie.

Se capire come cambia il mondo non è facile nei periodi in cui la mutazione è lenta, lo è ancor menoin quelli come il presente in cui essa è veloce e radicale.

Qualcuno suggerisce di “navigare a vista”, come avveniva durante le procelle e la sopravvivenza diveniva l’imperativo categorico che accomunava l’intero equipaggio: ma la marineria “sapeva” di dover mantenere proprie leggi di comportamentoper l’ordinarietà della navigazione. Qualcun altro cerca di restringere il campo d’azione a ciò che sembra avere un carattere più permanente e allora spera di ottenere un risultato accettabile negando o anche solo ignorando il contesto: ci si lega a una boa e si pensa di mantenere antiche sicurezze.

Oggi il “cambiamento” sembra essere divenutofrenetico, radicale e soprattutto inarrestabile[3]. Si è compreso che vi contribuisce il “cambio di passo” fornito dall’innovazione tecnologica soprattutto attraverso l’informatica e, per suo tramite, nella comunicazione; si è compreso che tutto ciò incide sulla trasformazione in atto nei processi produttivi e sulle relazioni politiche e sociali a scala molto ampia. Sarebbe miope, però, volersi limitare a queste osservazioni.

Bisognerebbe andare oltre per tentare diaccettare che sta nascendo una società diversa, anzi che ciò è già avvenuto e che noi non ne abbiamo compreso il senso o tardiamo a farlo.

Le tecnologie hanno messo a disposizione di un gran numero di persone (e dei giovani in particolare) la possibilità di avere notizie, elementi di conoscenza di ogni genere e tipo e contatti virtuali con l’intero pianeta nel quale viviamo. Il nostro “prossimo” è ormai ovunque in diverse città, nazioni, continenti. Ma quale prossimo? Quello della “porta accanto” o del mondo intero che magari fisicamente non incontreremo mai? Queste connessioni sembrano aver abolito di fatto sia il passato che il futuro.

E’ perciò una grande rivoluzione che ha effetti su tutta la popolazione del pianeta, che ha messo in movimento interi popoli che sfuggono alla povertà e cercano di migliorare la loro condizione, ma ha favorito la formazione di nuove diseguaglianze[4].

Non si tratta solo di raccontare come i linguaggi informatici e le conseguenti tecnologie comunicative che ne derivano siano in grado di evolversi con sempre maggiore rapidità e di produrre, quasi senza vincoli, nuovi oggetti, di sostituire “robotizzando” il braccio dell’uomo, di creare nuovi, quasi onirici, “modi” di vita, di fruizione dello spazio e di organizzazione del lavoro, di aiutare come avviene nella medicina la stessa sopravvivenza dell’uomo. Sta piuttosto nel capire se e come tutto ciò influenzi in modo irreversibile e renda sterile quel collant tra mondi e sensibilità diverse che era alla base di più lenti processi evolutivi. Sta nel capire quanto, “seguendo l’onda” sia possibile spingersi entro un divenire che incuriosisce e a un tempo spaventa e come, invece, occorra resistere per entrare, con ragionevolezza, senso etico e non negando il passato, in quel “buio oltre la siepe” che caratterizza il futuro[5].

Stanti queste condizioni, come urbanisti abbiamo bisogno di sapere di più, di capire di più; fino ad ora ci siamo limitati a suggerire potenzialità diverse e spesso fra loro contrapposte allorquando ci è stato richiesto di rispondere a precise domande anche innovative ma giunte fino a noi troppo segmentate edespresse settorialmente.Su ciò ha inciso la contrapposizione tra “tecnica” e “progettazione”, in quella tra “analisi territoriale” e “pianificazione urbanistica” che ha aiutato il frazionamento dei saperi dell’urbanistica. Lo stesso è avvenuto per l’ulteriore contrapposizione fra città ed ambiente favorita da molteplici livelli decisionali (stato, regioni, province, comuni con un’articolazione eccessiva tra storia e cultura, tra ambiente naturale e costruito) e da una crescente articolazione settoriale, quasi imposta, dalla formazione di mercati paralleli che incidono spesso indipendentemente l’uno dall’altro sulle trasformazioni urbane (il turismo e il tempo libero, il commercio, ecc.).

Luoghi, città, ambienti non appaiono così supportati da una cultura urbanistica che tenda a trovare convergenze in comuni principi e in adeguati criteri di intervento e gestione delle trasformazioni. Si accetta supinamente questa disarticolazione culturale come male minore e, di fronte al cambiamento, si forniscono risposte parziali e inadeguate.

Basterebbe osservare i tentativi sui quali si misurano da anni gli urbanisti per migliorare le loro capacità di intervento: da una parte, se riguardati nel medio periodo, molteplici, forse troppi, tentativi di miglioramento della qualità insediativa produconoeffetti negativi; dall’altra, sotto il profilo operativo, la diversificazione dei ruoli  e l’incremento delle specializzazioni determina una difficoltà crescente nel coniugare fra loro culturalmente anche le relazioni più semplici e logiche che sussistono nella città (come è il caso del rapporto  con la “politica”).

Tutto ciò si riflette sullo stato delle città e si manifesta ormai come altro modo di vivere la quotidianità. Lo prova, da una parte, il crescente disagio sociale di fronte alle difficoltà quotidiane dell’abitare e del vivere, dall’altra il conflitto sociale che si manifesta via via in modo sempre più organizzato. Non è un caso chesi formino continuamente e in forma spontanea aggregazioni di cittadini che tendonoattraverso manifestazioni, purtroppo ancora “incomprensibili” ai più ma tuttavia vitali, ad attirare l’attenzione dei governi urbani troppo disattenti al rispetto dei valori comuni.

Né va meglio per quelle città nelle quali si tenta di correggere andamenti negativi attraverso nuove tecnologie e si osanna all’”intelligenza artificiale”. Avvalorarlo ed appropriarsi solo del suo valore strumentale non basta se a questo non si lega una più attenta e approfondita valutazione delle possibili conseguenze edi quanto ne consegue anche in campi che nell’apparenza sembrano esterni e neutri[6].

Non basta, perché ci darebbe solo le soluzioni che gli spot pubblicitari dei nuovi prodotti hanno da tempo anticipato e suggerito: rapidità assoluta nei movimenti e nelle comunicazioni; sicurezza assoluta rispetto alle situazioni di rischio che natura ed uomo determinano quotidianamente; riduzione assoluta della “fatica” che il lavoro ha storicamente comportato in fabbrica, in ufficio, in casa; garanzia assoluta di consumi più facili ed immediati nello spazio e nel tempo.

L’Orwell di 1984 preconizzava, quali possibili, esiti molto diversi da quelli che un ottimismo su un domani più facile ed “amico” avrebbe potuto garantirci.

Quel romanzo, al di là delle suggestioni sul potere assoluto, invitava implicitamente a considerare importanti due aspetti ineliminabili che sono in opposizione con le apparenti  sicurezze prima evidenziate e che dovrebbero essere poste alla base di qualsiasi forma di “governance”: l’incertezzache accompagna qualsiasi decisione e di cui sono un’attenta valutazione può consentire l’accettazione sociale; il rischioinsito in qualunque azione dell’uomo sul territorio e che è possibile ridurre e quantomeno contrastare ma non certo annullare.

Nel confronto tra il mondo dell’habitatsempre più complessoche proviene e si alimenta del passato e quello nuovo, più semplice,però, certamentecomplicato del nuovo che si sta costruendo attraverso l’innovazione tecnologica queste due condizioni possono rappresentare un fattore importante di correlazione e indurci ad una diversa riflessione.

Su un tema come “il cambiamento del mondo” è inevitabile trovare taluni entusiasti e pronti a seguirne le movenze[7], altri impegnati a ritardarlo e, al limite, a negarlo.

Già, perché nel “cambiamento” (che è un dato “continuo” del divenire)le due posizioni convivono, sono intrinseche alle nostre nature e, attraverso percorsicontorti, spingono anche coloro che erano favorevoli a contraddire taluni dei presupposti posti alla base. A ben guardareci sono chiari riscontri di ciò nella storia. Non voglio risalire a Gutenberg e alla invenzione della stampa.

E’, forse,anche azzardato richiamare i “corsi” e i “ricorsi”vichiani,ma non si può negare che da questa dinamica non sia stata esente, ad esempio, la stessa “rivoluzione francese”, antesignana del rivolgimento epocale della fine del settecento e poi della restaurazione che caratterizzeràgran parte del secolo decimonono anche se attraverso soggetti e ceti sostanzialmente diversi.

Isolare l’uomo (e da qui la stessa dinamica del vivere l’urbano) non è mai un fatto positivo: attraverso l’accettazione dell’incertezza e dell’immanenza del rischio nelle decisioni si potrebbero attenuare gli eventuali danni del “fare” e tendere a risultati migliori.

Ci sono, perciò molte dimensioni e angolazioni diverse insite nell’osservare il cambiamento e su cui gli urbanisti dovrebbero soffermarsi.

Si può trarre ispirazione da ognuna di esse per il dopo e penso anche per la sintesi inevitabile che dovrà produrre la loro fatica.Il ché mi incuriosisce quanto meno perché nel seguito vorrei fornirti qualche contributo positivo e non solo esitazioni e dubbi.

Così, prima di chiudere, riprendo il titolo della rivista e, provocatoriamente, lo proietto in presumibili orizzonti, lo articolo e lo arricchisco con segni di interpunzione, dandone un’interpretazione personale.E’ una sorta di divertissement quasi letterario che si basa su schematizzazioni, evocazioni e citazioni di vario genere e su qualche esempio elementare.

“Come cambia il mondo”:isolando e senza punteggiatura questa espressione, può essere un riferimento di carattere generale che spinge, per quanto riguarda la città, verso due direzioni diverse.

Potrebbe divenireil titolo di una lunga rassegna a più voci che registra fenomeni in atto e risponde a una domanda generica, quasi senza tempo ed agnostica, utile tuttavia per la conoscenza. Accetta implicitamente di accostare diverse posizioni ed esperienze, di registrare il racconto di fenomeni e accadimenti eterogenei e l’interpretazione dei fatti, tecnici e non, che caratterizzano l’innovazione. E’ una grande apertura al tema che favorisce innanzitutto la costruzione di una raccolta antologica, in termini più aulici di una crestomazia, dalla quale trarre spunti ed esempi.

Il titolo, così definito, può spingere anche ad un’interpretazione di segno opposto. Può indirizzaread una sintesi che favorisca la costruzione di una diversa concezioneetica che, partendo dall’accettazione delle diversità, divenga messaggio unitario per il domani e costruisca i prodomi di un diverso, inedito pensiero in grado di aiutarci.

Ho sempre considerato il “Cuore” di De Amicis un punto di riferimento, forse elementare ma proficuo negli intendimenti,dei primi anni della storia unitaria del nostro Paese; uno strumento culturale per la formazione dei giovani e non solo. Nel cambiamento epocale che si era determinato c’era bisogno di un messaggio rassicurante? Certamente per chi voleva chiudere il “risorgimento” costruendo anche socialmente il Paese. Il libro divenne una lettura quasi obbligata nelle scuole. De Amicis, attraverso il “diario” di uno studente della Torino postunitaria, tentava di far comprendere come ragazzi di varia estrazione sociale, nati nelle diverse regioni italiane e con caratteri che andavano dal docile al prepotente e all’ indisponente, potessero via via integrarsi nella nuova Italia[8].

Potrebbe essere questo un punto di partenza utile per la ricomposizione di una cultura della città alla luce dell’innovazione tecnologica? Forse si. Ma richiede quell’attento lavoro di ascolto, cui ho fatto riferimento, che aiuti a comprendere come stanno cambiando i nostri comportamenti non più solo per la perdita di valore delle antitesi che hanno caratterizzato il novecento (capitalismo e socialismo) ma per quella diffusa volontà di uguaglianza di atteggiamenti e consumi che emergono oggi. Questa volontà che si esprime nell’accettare l’emergere di nuovi ceti, tende ad essere generalizzata ma a ben vedere si manifesta molto differenziata a seconda dei luoghi, delle città e degli ambienti.

L’incertezza di questa affermazione e il rischio di proporre nuove schematizzazioni invita ad evitare le generalizzazioni può spingere a cercare il futuro possibile attraverso la verifica del passato e del presente e soprattutto può indurre a ripensare al valore dei luoghi, degli ambienti, delle città prima di decretarne pessimisticamente la fine.

Propongo a me stesso, prima di tutto, un confronto tra affermazioni che sembrano scaturire da mondi diversi e che hanno invece una matrice comune. E’ un modo per aggettivare “Come cambia il mondo”dandogli un sapore diverso: ho riunito“luoghi comuni”entrati nel linguaggio quotidiano, dichiarazioni senza equivoci di aspetti singolari del cambiamento.Sono affermazioni che si originano da posizioni diverse spesso incommensurabili. Le metto provocatoriamente a confronto. Le une, sono legate al fastidio e allo smarrimento che si avverte della quotidianità ogni volta che si entra in contatto con fenomeni che ci sembrano “inconcepibili” e ci richiamano “mondi” precedenti decisamente migliori se non perfetti.Le altre, per paradosso e contrasto,sono il prodotto di un complesso di elaborazioni “più dotte” e onnicomprensive che tentano di fornire sintesi definitorie radicali.

Le definirei entrambe posizioni di ordine soggettivo in quanto evocano il “momento magico”, positivo o negativo, universalizzante o meno, poco importa, in cui un’intuizione ci consente di comprendere che appare all’orizzonte, anzi sta nascendo, qualcosa di diverso dal convenzionale cui eravamo aggrappati. E’ allora che sentiamo il bisogno di riflettere su qualcosa che, per vie traverse, ci induce a modificare sostanzialmente il nostro giudizio sugli atti che compiamo, sui codici che ci eravamo imposti di seguire. Fa evidenziare ad alcuni quali soprusi dell’oggi, magari solo differenze che turbano le nostre abitudini. Induce, al contrario, altri a pensare a visioni apocalittichesu un domani cheincombe.

Pongo perciò, da una parte, le ciacole, un po’ da “comari”, cui tutti noi partecipiamo e che scaturiscono dal guardarci intorno per strada, a casa nelle faccende domestiche o magari davanti alla televisione.E’l’osservazione elementare, quasi dilettantistica dei fenomeni che ci circondano: provocano ritardi, creano apprensioni, smarrimento, non sappiamo spiegarcene la ragione: soprattutto turbano la nostra apparente normalità. L’alimenta suggestioni semplici che la satira spesso esalta con facilità: sono del tipo “non ci sono più le mezze stagioni”, “il traffico ci sta paralizzando”[9], “non usciremo più di casa”, “con l’auricolare le persone per strada, sembra parlino da sole”, “ci avviamo a vivere in un’Europa colorata”[10]

Pongo, dall’altra parte,le parole chiave, le metafore, introdotte in saggi e in poderosi volumi, da studiosi di varia estrazione culturale che hanno tentato di stigmatizzare il cambiamento in atto. Ne elenco alcune: “i limiti dello sviluppo” prospettati negli anni sessanta dal cosiddetto Club di Roma, “il secolo breve” (che con Hobsbawm sembra farci entrare in sequenze temporali più rapide), la globalizzazione (col passaggio repentino dalla produzione in fabbrica, che sembrava aver stabilizzato la conformazione degli assetti, alla prevalenza della finanza che prospetta dinamiche impalpabili); la “fine della storia” (con Fukuyama che preconizza o quasi l’arresto della dialettica evolutiva della società); la “società liquida” (con Baumann che, negando le tradizionali scansioni sociali proietta l’umanità verso mete indistinte e la tendenza verso l’unificazione dei giudizi e dei consumi), il “ce qui arrive” (con Paul Virilio che racconta l’avvolgente correlazione tra le catastrofi naturali) via via fino ai “barbari”  di Baricco e al recentissimo saggio di Roberto Calasso “L’innominabile attuale”.

Mettere a confronto atteggiamenti e approcci così diversi può scatenare un’ulteriore sintesi sul “cambiamento” che mi sembrerebbe utile: non coinvolgerebbe noi tutti nel passaggio da inconsci “sopravvissuti in un mondo senza nome” a protagonisti di un processo “democratico” di ridefinizione dei ruoli sociali che la politica non sa ancora decifrare e far emergere e che noi urbanisti tardiamo a ridefinire? Non sarebbe un modo per limitare quel “ripiegamento del pensiero” cui alludo nel titolo che ho proposto?

Chiudo associando fra loro due notazioni differenti su cui avevo puntato l’attenzione nella prima stesura di questo testo. La prima è natalizia, non religiosa ma neppure blasfema.

Nei presepi della tradizione meridionale c’è un pastore, u’ meravigghiatu da’rutta (il meravigliato della grotta) che vale la pena richiamare: rimane solo, più lontano degli altri pastori dal giaciglio del”bambinello”; forse, con il suo attonito atteggiamento, sta intuendo il valore di un cambiamento epocale su cui si costruirà non poco della storia degli ultimi due millenni:lui è per sua fortuna o sfortuna l’inconscio spettatore. Chi sa dire se nel suo caso “come cambia il mondo” si dovrebbe concludere con un punto esclamativo o con un punto interrogativo?

La seconda riguarda l’intuizione: le attribuisco come dote un grande valore anche nello scrivere e comunicare. Questa, peraltro, è un’intuizione minuscola del tutto personale e di nessun peso culturale, ma non so abbandonarla.

Su un’anta di una finestra di casa mia segno come crescono in altezza le mie nipotine: mi bastano una squadretta e una matita (tecnologia arretrata). Le misuro ogni tanto, mi compiaccio vedendole sempre più alte. Per molto tempo non sono andato oltre: era la loro crescita fisica a guidarmi. Qualche giorno fa, ripetendo questa operazione per l’ennesima volta, ho pensato “devo aggiornare questa tecnologia non posso andare avanti così”. Poi mi sono accorto dell’inutilità di proseguirla. Mi sono detto: “le mie nipoti da bambine stanno diventando ragazze e sono nel pieno della loro adolescenza, non c’è più bisogno di misurarne l’altezza, semmai è opportuno che io impari a cogliere altri aspetti: il modo di comportarsi, di ragionare, le loro aspirazioni, la capacità di riconoscere e dirimere il bene dal male, il senso del loro sorriso o della velata tristezza che talvolta le assale, il racconto delle loro esperienze, fra “detto e non detto” che comincia ad orientare la loro comunicazione, il rapporto del tutto inedito che le lega agli strumenti dell’innovazione tecnologica (e che ci ha portato a definire la loro generazione come di “nativi” differenti da noi)  e via discorrendo…”


 [1] Giancarlo De Carlo, tentò in uno dei suoi editoriali della rivista”Spazio e società” una mediazione scrivendo: “l’urbanistica non può essere un prolungamento dell’ opera architettonica, bensì è l’architettura che diviene un particolare elemento dell’urbanistica”. Mi sembra ragionevole anche se ritengo occorre, soprattutto oggi, uscire dal seminato disciplinare, per cogliere il senso di definizioni più laiche come quella proposta da Weber (la città è un “insediamento mercantile” che proviene e si proietta, diversificandosi, nella storia).

Cfr.: I. DAIDONE, Giancarlo De Carlo. Gli editoriali di “Spazio e società”, Gangemi editore, Roma (in corso di pubblicazione).  M.WEBER, La città, Bompiani, Milano, 1950.

[2] Penso, ad esempio, (ma mi riprometto di riprendere questo tema in altra occasione), al ruolo che stanno assumendo le cosiddette “archistar” nell’architettura urbana con idee, suggestioni formali e prodotti tecnologici avanzati che non sono quasi mai in grado di seguire il divenire urbano ma vi si contrappongono provocatoriamente.

[3] Chiesi qualche anno fa a un collega docente di “nanotecnologie” su quale testo era possibile conoscere di più su questo tema: mi sarebbero bastate le dispense del suo corso. Mi rispose che il cambiamento era così rapido che non era stato fino ad allora in grado di scrivere alcunchè e che pensava fosse inutile farlo. Oggetti, utensili, accessori cambiavano quasi quotidianamente e non solo per fatti marginali.

[4] Ho ripreso quest’ultimo periodo, parafrasandolo, da un intervento di Eugenio Scalfari su L’Espresso (48/2017).

[5] Ho avuto modo di affrontare di recenti in occasioni diverse questo tema. Richiamo in particolare:“Passato, presente e futuro dell’urbanistica: la figura di Gustavo Giovannoni”, relazione generale al Convegno per il cinquantenario del Centro Nazionale Studi Urbanistici del C.N.I, Roma 2016 (in corso di pubblicazione); “Pensando al futuro della città: lo spazio che diventa luogo, estetica, costruzione sociale”, conferenza tenuta a Napoli nel 2016; “Viaggio all’interno e intorno all’urbanistica”,Città Bene Comune, Milano 2017.

[6] Nelle città, come Parigi e Londra dove hanno avuto successo, le metropolitane sono state legate da subito agli assetti urbanistici in fieri, anzi ne sono stati la guida. La loro modernizzazione attuale, con tecnologie avanzate, è risultata peraltro aderente con il ruolo che l’uso era riuscito a garantire per quasi un secolo alla cittadinanza.

L’idea dell’onda verde con cui si ècercato a Roma di favorire lo scorrimento del traffico lungo la via Cristoforo Colombo è stata mutuata, da analoghe esperienze tedesche. I romani, con ironia, la definiscono l’onda rossa per la difficoltà che hanno di percorrerla. Nel realizzarla non si era è tenuto conto delle differenze che sussistevano fra i tessuti cittadini romani e tedeschi; nel seguito d’altra parte, non sono stati messi a punto dei correttivi, né si è stati in grado di alleggerire il traffico, anzi nuove edificazioni al bordo rischiano di renderlo più difficile ed ostico.

[7] Negli anni ottanta gli urbanisti della Scuola di Ingegneria dell’Università di Napoli affrontarono, sollecitati e guidati da Corrado Beguinot, il tema della “città cablata”. Ne divenne il cardine di una ricerca che cercò di legare il prossimo avvento di questa innovazione con gli aspetti funzionali della città. Era per molti versi anticipatrice di un futuro urbano che si cercava di restituire alla razionalità. Sarebbe interessante riprendere questo tema, oggi, per coglierne le risultanze, le suggestioni, le naturali aperture culturali che pose ma anche i limiti che un approccio, troppo tecnicistico rischiava di produrre. Vi partecipai anch’io; il mio atteggiamento era fin troppo critico ma credo piuttosto attento ad accettare il senso della sfida che comunque non poteva essere elusa anche se era bisognosa di una maggiore apertura sociale e multidisciplinare che lo stesso Beguinot intelligentemente propose attraverso una nuova ricerca sulla “città multietnica” ed un approccio ben più complesso.

[8] I “racconti mensili” che intercalano il libro sono dedicati alle “storie ordinarie”, e nel contempo eroiche, di ragazzi che contribuivano a costruire il nuovo volto del Paese. Seguivo, piangendo, la lettura che mi faceva mia madre del racconto “Dagli Appennini alle Ande”, storia di emigranti e della loro vita sacrificata alla ricerca di un luogo di lavoro accettabile e di una nuova speranza.

Qualche anno fa trovai a Firenze su una bancarella di libri vecchi un’edizione un po’consunta del “Cuore”:mia figlia che mi accompagnava insistette per regalarmela. Era l’edizione di Treves del 1887, la 57°; la prima era solo dell’anno precedente. Cfr.: G. IMBESI, Intersezioni fra progetti di territorio, in AA.VV: “Territori regionali e infrastrutture. La possibile alleanza”, Franco Angeli, Milano, 2008.

[9] I più maturi fra noi ricorderanno, se non sbaglio in “Roma” di Fellini (1972), l’episodio dell’ingorgo notturno sul raccordo stradale; Anna Magnani (in una delle sue ultime apparizioni cinematografiche) era la protagonista, volenterosa ma terrorizzata, dell’inutile tentativo di traghettamento della sua famiglia da una parte all’altra della strada.

[10] UMBERTO ECO, in “Pape Satan Aleppe: cronache di una società liquida”, (La nave di Teseo, Milano, 2016), ne fece un’ampia rassegna.


GIUSEPPE IMBESI

Ingegnere, libero docente in Tecnica Urbanistica dal 1969, professore ordinario di Urbanistica presso la Sapienza Università di Roma dal 1971 ove ha insegnato Pianificazione Urbanistica, Urbanistica, Politiche Urbanistiche. E’ stato Direttore della Scuola di Pianificazione e Tecniche Urbanistiche per le Aree Metropolitane della Sapienza.

Ha tenuto corsi e seminari su invito di università estere (San Paulo do Brasil, Universidad Central de Venezuela, Algeria) ed italiane (tra cui Politecnico di Milano e di Torino, Università Federico II di Napoli, Università Mediterranea di Reggio Calabria, Università della Calabria, Politecnico delle Marche) e  ha più volte presieduto il Comitato Scientifico dei Congressi Internazionali “Energia, Ambiente e Innovazione Tecnologica” (Sapienza e l’UCV) tenutisi a Roma, Caracas e Rio de Janeiro tra il 1989 e il 2003.

Direttore di numerose ricerche scientifiche in Italia e all’estero su temi urbani e territoriali (fra questi: l’innovazione dei metodi di analisi e pianificazione urbanistica, la  pianificazione delle attività turistiche, il recupero delle aree periferiche e marginali nei PVS, la riduzione del rischio sismico e la protezione ambientale) sia in ambito universitario che in collaborazioni e consulenze scientifiche con organismi dell’ONU (FAO, OMT, Habitat), con il Consiglio d’Europa, il  Senato della Repubblica Italiana, gli enti territoriali di supporto alle politiche territoriali per il Mezzogiorno (CASMEZ, FORMEZ, IASM, INSUD).

Presente nel dibattito politico-culturale del campo disciplinare urbanistico è stato tra i fondatori della SIU (Società Italiana degli Urbanisti),tra i delegati italiani dell’AIU (Association International des Urbanistes), membro effettivo dell’INU. E’ socio onorario della Società Geografica Italiana e membro del Comitato Scientifico del CENSU (Centro Nazionale Studi Urbanistici).

Autore di oltre quattrocento pubblicazioni scientifiche (libri, studi monografici, saggi, articoli) sia in Italia che all’estero, è direttore della collana “Città, Territorio, Piano” dell’editore Gangemi di Roma.

Svolge dal 1963 attività di progettazione nel campo della architettura e dell’urbanistica partecipando da solo e in collaborazione a numerosi progetti e concorsi con un’attenzione particolare agli edifici pubblici di carattere strategico ed alla riqualificazione urbana ed ambientale.  Significativo il contributo alla pianificazione territoriale del Mezzogiorno sviluppata con progetti e piani di livello regionale (Molise, Calabria, Lazio Meridionale) e locale (Agrigento, Reggio Calabria) e con il coordinamento del gruppo di lavoro per la valutazione della fattibilità urbanistica del Ponte sullo Stretto di Messina. Da richiamare peraltro anche i piani e progetti per Roma (il PRG del 2008, consulente per gli aspetti turistici, il progetto del quartiere della Torraccia nell’ambito del II PEEP, il piano di Acilia per il recupero delle “zone abusive”) e la partecipazione alla Commissione Consultiva Tecnico-Urbanistica del Comune di Roma dal 1979 al 1991.