giovedì, 28 Novembre 2024

Invidia

Gustavo Pietropolli Charmet [ Enciclopedia delle scienze sociali. TRECCANI ]

Dal punto di vista del sentire comune, e nell’opinione generale, l’invidia è sempre stata considerata un vizio, e tra i più deplorevoli. Sappiamo inoltre che la morale cattolica colloca l’invidia tra i vizi capitali, in diretta opposizione alla virtù della carità. L’invidia è però anche definibile come una passione, un affetto, un sentimento.

E in quanto passione è tradizionalmente legata alla tristezza: “tristezza per i beni altrui” la definisce san Tommaso. L’invidioso infatti è triste perché il suo desiderio più profondo e lacerante è quello di sottrarre all’altro i suoi beni per appropriarsene e goderne al suo posto. A ciò si accompagna in genere la sensazione, da parte di colui che invidia, che quello che l’altro possiede sia immeritato. Di qui la necessità, per l’invidioso, non soltanto di soddisfare la propria brama, ma di provocare la sofferenza, o la privazione, nell’altro. Questo complesso intreccio di sentimenti viene efficacemente rappresentato nell’iconografia classica che ritrae l’invidioso come personaggio dai tratti eccessivi, caricaturali, solitamente impegnato a osservare da lontano, con sguardo torvo e malevolo, la legittima soddisfazione di qualcuno. È soprattutto a causa di questo aspetto distruttivo che nei confronti dell’invidioso non scatta il meccanismo di identificazione e di conseguenza è impossibile provare compassione. L’invidioso soffre terribilmente, ma in qualche modo la sua sofferenza viene considerata giusta, una sorta di contrappasso immediato per un sentire tanto meschino.

Anche l’etimologia del termine conferma la radice visiva dell’espressione: nel verbo ‘invidere’ la particella ‘in’ ha valore negativo, vale ‘non’, nell’accezione di ‘cattivo’. ‘Invidere’ – e quindi ‘invidiare’ – vuol dunque dire ‘guardare male’, in un senso molto forte, che equivale a gettare il ‘malocchio’: un occhio maligno, appunto, cattivo. A ciò corrisponde anche la locuzione di uso comune ‘non lo posso vedere’, indirizzata di solito a qualcuno verso il quale si prova un risentimento di marca invidiosa: colui che ‘non si può vedere’ è colui la cui vista provoca uno strazio intollerabile, quasi una minaccia per la propria sopravvivenza.

A prescindere dalle sfumature di significato che le varie discipline che se ne sono occupate hanno saputo distinguere all’interno di questo sentimento, si è in genere concordi nel definire l’invidia come il rammarico e il risentimento che si prova per la felicità, la prosperità e il benessere altrui, sia che l’invidioso si consideri ingiustamente escluso da tali beni, sia che, già possedendoli, ne pretenda l’esclusivo godimento. Molti studiosi sono inoltre d’accordo nell’accomunare in una medesima categoria, quella del patire, il sentimento dell’invidia e quello della gelosia. Quest’ultima passione viene però generalmente considerata ammissibile, al contrario della prima, condannabile in assoluto e mai confessabile se non in una forma lieve e caratterizzata in positivo che, spogliandola del suo contenuto aggressivo, la trasforma di fatto in emulazione.

Sentimento privatissimo perché, si diceva, inconfessabile e, dunque, non condivisibile, l’invidia svolge tuttavia il ruolo di detonatore di numerose dinamiche sociali. D’altra parte, se è vero che ha radici nel profondo – e lo scavo condotto con gli strumenti psicanalitici non fa che dimostrarlo – è pur vero che l’invidia si definisce sulla scena sociale in rapporto a un altro, l’invidiato, e poi al contesto più ampio che è quello che fissa i criteri di giudizio stabilendo così che cosa è invidiabile e cosa no. Anche per questo il sentimento invidioso è stato oggetto di studio di diverse discipline.

L’INVIDIA SECONDO I FILOSOFI

Sono numerosi i filosofi che, affrontando lo studio dell’uomo e dei sentimenti umani, hanno dedicato riflessioni al tema dell’invidia. Dopo Aristotele, che all’invidia oppone la giusta capacità di indignazione, dopo sant’Agostino e san Tommaso, Francis Bacon parla di un’invidia “pubblica”: un’invidia anomala rispetto al sentimento che di solito definiamo invidioso. A differenza di quest’ultimo, che proviene da una mancanza ed è indirizzato dal basso verso l’alto, l’invidia cosiddetta “del re” consiste nel timore che le distanze vengano colmate e procede dall’alto verso il basso. È questa, secondo Bacon, l’invidia assoluta, quella che produce una percezione distorta, secondo la quale, quando qualcun altro avanza, l’invidioso ha la sensazione, pur trovandosi in notevole vantaggio, di retrocedere, di perdere terreno.

Altri filosofi hanno contrapposto l’invidia all’ammirazione, come per esempio Cartesio, oppure al sentimento della misericordia, “l’amore che gode del bene altrui e si rattrista invece dell’altrui male”, come scrive Spinoza nella sua Ethica. Anche Schopenhauer vede nell’invidia una passione umana inevitabile, il cui opposto è la compassione: è naturale, sostiene Schopenhauer, che l’uomo nel vedere il godimento altrui provi amarezza; questo però non dovrebbe suscitare l’odio verso chi è più fortunato. Ma proprio di ciò è fatta la vera invidia, definibile anche come la situazione che esclude l’amicizia. Viceversa, poiché il bene degli amici è anche il proprio, il rapporto di amicizia è quello all’interno del quale l’invidia non può attecchire.

Tra gli illuministi si afferma l’idea che l’invidia sia uno dei tanti deprecabili vizi che condizionano i rapporti sociali, vizi cui non sarebbe possibile opporsi giacché essi sarebbero espressione della natura umana. D’altro canto l’invidia affonda le sue radici in un sentimento più articolato e complesso: il risentimento. Di quest’ultimo stato d’animo Nicola Abbagnano (v., 1961) dà una definizione che ne mette in evidenza le analogie con il sentimento invidioso: “è l’odio impotente contro ciò che non si può essere o che non si può avere”.

L’INVIDIA SECONDO GLI PSICOLOGI

Gli studiosi di psicologia non hanno mai dedicato una trattazione sistematica e coerente al tema dell’invidia, pur interessandosi spesso di questo affetto e, in primo luogo, dei legami che esso intrattiene con altri sentimenti umani. Un rapporto privilegiato viene da sempre individuato tra l’invidia e la gelosia, anche se molti autori concordano nel ritenere questi due sentimenti essenzialmente diversi per quel che riguarda sia il tipo di relazione tra i soggetti, sia l’oggetto cui si riferiscono: mentre, infatti, l’invidia scaturisce dalla superiorità altrui, la gelosia prescinde da questo aspetto. Altri sentimenti spesso legati all’invidia sono l’ambizione (v. Scheler, 1955), l’ammirazione (v. Raiga, 1932; v. Farber, 1966), lo spirito competitivo, la superbia e la modestia, l’emulazione.

Alcuni autori hanno dedicato la loro attenzione anche all’invidiato – un ruolo specifico e scarsamente trattato -, al suo rapporto con il sentimento di cui è oggetto e alle possibilità che egli ha di mitigarlo (v. Farber, 1966; v. Heider, 1958; v. Schoeck, 1966).

Il ruolo dell’invidia in un contesto eminentemente sociale, quale quello del lavoro, è stato analizzato con particolare interesse e acume da Elliott Jacques, uno dei maggiori studiosi di psicologia del lavoro. La sua analisi, condotta in una prospettiva teorica psicanalitica di marca kleiniana, lo conduce ad attribuire grande importanza a questo sentimento, spesso molto incisivo nei rapporti di lavoro. Jacques (v., 1970) sostiene infatti che, all’interno di un’attività quale quella lavorativa, fondamentale perché l’uomo possa raggiungere il proprio equilibrio psichico, il sentimento innato dell’invidia incontra enormi occasioni di sviluppo. L’autore propone un originale parallelismo tra il rapporto che il lavoratore intrattiene con il datore di lavoro e il rapporto tra madre e figlio: in entrambe le situazioni sono determinanti, tra l’altro, i fattori di dipendenza e il possesso dell’oggetto desiderato. Considerando – come fa Melanie Klein – l’invidia un affetto primario e dunque innato, Jacques ritiene inutile ogni tentativo di eliminare questo sentimento dal contesto lavorativo attraverso la repressione sociale. L’ambiente non può far altro che tenere sotto controllo fino a un certo punto l’intensità di questo affetto; a tal fine deve essere raggiunto un equilibrio fra tre parametri fondamentali: le capacità del singolo lavoratore, il lavoro e la retribuzione.

Sempre nell’ambito dell’indagine psicologica, il tema dell’invidia ripropone uno spunto di riflessione destinato a essere chiamato in causa ogni volta che si parli dei fenomeni emotivi, vale a dire il rapporto che intercorre tra le varie aree dell’attività psichica: quella intellettuale, quella affettiva, quella volitiva. È un problema antico, lasciato in eredità alla psicologia dalla filosofia classica. Da sempre la psicologia ha studiato i fenomeni emotivi anche nell’accezione funzionale e relazionale, cioè come legami che connettono l’individuo alle altre persone, alle cose, agli eventi. L’esperienza emotiva, infatti, è ciò che ci consente di apprendere il significato degli eventi ed è ciò che seleziona e controlla gran parte delle informazioni con cui entriamo in contatto. Anche l’interazione sociale è mediata dai sentimenti e dalle emozioni, perciò sia la psicologia individuale sia quella sociale hanno concentrato la loro attenzione sulla specificità delle singole emozioni, sulle loro reciproche differenze e sul modo in cui esse interagiscono con i processi intellettuali e con l’attività percettiva. In questa prospettiva ‘interattiva’ l’invidia può quindi essere considerata il prodotto di un’operazione cognitiva di confronto e valutazione, che parte dall’inserimento di un qualche evento all’interno di uno schema mentale preciso. Il confronto che genera invidia avverrà a partire da una valutazione soggettiva della realtà, non a partire dalla realtà vera e propria: come ogni rappresentazione sociale, anche quella dalla quale scaturisce l’invidia sorge da un nucleo di verità ma si arricchisce man mano di una serie di elaborazioni personali compiute dal soggetto. L’invidia risulta dunque essere un costrutto psicologico complesso, che non è legittimo ridurre a un affetto del tutto spontaneo e irrazionale. Fondamentali sono, in essa, aspetti cognitivi e valutativi relativi a contesti sociali e relazionali sempre differenti.

L’INVIDIA SECONDO I SOCIOLOGI

L’invidia è un fenomeno senza dubbio interpersonale, in quanto coinvolge almeno due individui e può estendersi a un numero considerevole di persone, dal piccolo gruppo alla massa. Visti all’interno del più ampio contesto sociale i protagonisti del sentimento invidioso divengono a loro volta entità sociali tra le quali intercorrono i rapporti di prossimità sociale indispensabili al confronto e quindi al sorgere dell’invidia. Questo punto di vista sembra contrassegnare il pensiero sociologico sull’invidia nel suo insieme: secondo i sociologi il presupposto necessario alla nascita di un sentimento di invidia è “un minimo di possibilità comuni” (v. Alberoni, 1990). Non si invidia chiunque, sostiene Alberoni, si invidia soltanto colui con il quale si presuppone di avere una comunanza di desideri e di capacità: l’invidia scatta tra fratelli, tra colleghi, tra i componenti di uno stesso gruppo sociale. Altra precondizione perché ci sia invidia è, sempre secondo Alberoni, la presenza di un pubblico, seppure virtuale. Questo sentimento così profondamente intimo e inammissibile sembra infatti fondato su una relazione diadica – quella che intercorre tra l’invidioso e l’invidiato – mentre in realtà nasce alla presenza di un pubblico: coloro di fronte ai quali l’invidioso avverte con strazio il proprio scarso valore rispetto a colui che, invece, ha avuto successo. La sociologia tende inoltre a collocare l’invidia in una situazione di reale competizione: essa comparirebbe quando il soggetto si rende conto che la considerazione di cui godeva è insidiata da qualcun altro, anche se questo altro non si pone in competizione diretta.

Lo studio più approfondito sull’invidia è stato effettuato proprio da un sociologo, H. Schoeck (v., 1966), che ha preso in esame tutti gli aspetti culturali del problema. Il tratto più innovativo dell’opera di Schoeck e del suo modo di procedere nell’analisi del sentimento invidioso riguarda i motivi per i quali l’invidia risulta una passione inconfessabile, socialmente stigmatizzata con grande severità, spesso camuffata e sempre sottoposta a tentativi più o meno riusciti di razionalizzazione. Al termine del suo percorso – nel quale, sulla base dell’invidia, arriva a spiegare fenomeni come il conformismo e alcune forme di conflitto – l’autore propone un’ipotesi di rivalutazione individuale e sociale dell’invidia: collegandolo al risentimento, Schoeck individua nel sentimento invidioso un elemento determinante nella formazione dei valori e della morale. La tesi di fondo dell’autore è che questo sentimento è così profondamente radicato nell’animo umano da rendere inutile qualunque strategia per annullarlo: anche in presenza di un assoluto livellamento sociale una sia pur minima diversità diventerebbe pretesto del sentimento invidioso.All’interno della stessa sociologia non sono mancate tuttavia perplessità nei confronti della proposta teorica di Schoeck. In particolare le critiche si sono concentrate sul meccanismo secondo il quale risentimento e invidia avrebbero giocato un ruolo nella genesi di alcune tendenze moralistiche quali l’umanitarismo e la filantropia.

L’INVIDIA NELLA PSICANALISI

Sigmund Freud

L’invidia fa la sua comparsa nella letteratura psicanalitica fin dalla nascita della psicanalisi stessa. È infatti Sigmund Freud a chiamare ripetutamente in causa questo affetto, inizialmente in termini alquanto generici, in seguito con la formulazione del concetto più tecnico di ‘invidia del pene’. Freud non procederà mai a una sistematizzazione di tale concetto, né a una sua trattazione specifica; l’invidia del pene si pone tuttavia, secondo Freud, come elemento determinante nel formarsi dell’organizzazione psichica femminile. Il concetto specifico di invidia del pene viene presentato da Freud per la prima volta nello scritto Teorie sessuali dei bambini (1908), che si colloca agli albori della sua riflessione sulla sessualità e sulla psicologia femminili. In quel testo Freud descrive il diverso atteggiamento del maschio e della femmina al cospetto dell’assenza del pene: da parte del maschietto l’iniziale negazione dell’evidenza percettiva (che in seguito cederà all’angoscia di castrazione), da parte della bambina la sensazione di trovarsi in svantaggio perché a lei qualcosa è stato negato, e l’invidia che ne consegue. Tutto ciò viene ben presto complicato dallo svilupparsi del rancore della bambina nei confronti della madre, ritenuta colpevole di averla fatta senza un organo genitale, e dunque responsabile dell’intenso dolore narcisistico che viene dalla constatazione di tale mancanza. L’aspetto narcisistico della sofferenza legata alla privazione viene ribadito in anni successivi, quando Freud, oltre che del desiderio delle bambine di possedere un pene, parlerà della loro ostilità nei confronti dei fratelli che invece lo posseggono. A ciò viene fatto risalire l’agito tipico delle bambine, che a un certo punto del loro sviluppo tentano concretamente di orinare in piedi: il loro narcisismo non può tollerare che altri possano fare ciò che a loro non è possibile.

L’invidia del pene, tuttavia, non si esaurisce sul versante narcisistico: si tratta di un sentimento con una marcata connotazione libidico-sessuale. Una delle componenti centrali di tale invidia, infatti, è, secondo Freud, l’equazione che la bambina istituisce tra l’organo maschile, grande e visibile, e l’intensità del piacere che se ne può trarre.

Si pone a questo punto il problema di comprendere in che modo la bambina spieghi l’assenza dell’organo genitale che al coetaneo maschio è stato dato e a lei no. L’ipotesi definitiva di Freud è che la bambina consideri “dapprima l’evirazione come una sventura individuale, solo più tardi la estende ad altre bambine e infine ad alcune donne adulte. Quando comprende che si tratta di un carattere negativo universale si produce in lei una grave svalutazione della femminilità e quindi anche della madre” (v. Freud, 1931). In questo punto specifico dell’evoluzione psichica femminile si colloca un passaggio delicato, indispensabile al formarsi dell’Edipo nella bambina. Secondo Freud, per poter accedere all’Edipo, la bambina – contrariamente al maschietto – deve ribaltare le proprie relazioni preedipiche trasformando la madre da oggetto d’amore in rivale e, viceversa, il padre da rivale in oggetto d’amore. Il fattore specifico in grado di estraniare la femmina dall’oggetto materno è proprio il complesso di evirazione, che si avvia a partire dalla constatazione dell’assenza del pene e dalla conseguente invidia. L’analisi di queste vicende ipotizzate da Freud consente di affermare che per Freud la femminilità non è primaria, in quanto sorgerebbe unicamente in seguito alla constatazione di non possedere il pene. La femminilità, dunque, non sarebbe altro che la soluzione che la bambina trova per risolvere il problema dell’invidia del pene. È a causa di questa conclusione – attribuitagli spesso con eccessivo schematismo – che molti studiosi hanno violentemente criticato la teoria di Freud della sessualità femminile.

Karl Abraham

La trattazione dell’invidia, soltanto abbozzata da Freud, viene successivamente portata avanti da Karl Abraham, suo allievo ed erede intellettuale. “L’invidioso – secondo Abraham – non mostra […] soltanto di desiderare quel che l’altro possiede, ma unisce a questo desiderio impulsi di odio contro il privilegiato” (v. Abraham, 1923; tr. it., p. 181). Abraham rintraccia l’origine dell’invidia in una lunga e variegata serie di situazioni, tra le quali domina comunque, come oggetto dell’invidia, il rapporto gratificante tra madre e fratello minore. Nella descrizione che Abraham dà del vissuto invidioso, infatti, si parla soprattutto del vissuto di esclusione, che il soggetto prova quando un fratello più piccolo gli subentra nell’allattamento. Per quanto riguarda poi l’aspetto – fondamentale in Freud e, vedremo in seguito, nella Klein – del carattere innato dell’invidia, Abraham sembra non avere dubbi: in assenza di uno stimolo specifico esterno non si ha invidia. Essa si manifesta soltanto quando le circostanze esterne ne sollecitano la comparsa, solitamente insieme a un groviglio di vissuti aggressivi concomitanti: rancore, gelosia, ostilità, avidità, desiderio di possesso, desiderio di controllo. Secondo Abraham, strutturandosi stabilmente a livello del carattere, l’invidia permea di sé la personalità intera; inoltre essa viene rafforzata da tutte le caratteristiche tipiche della fase anale, il che, a sua volta, fa sì che l’individuo sviluppi una personalità estremamente conflittuale, marcata dal narcisismo e dominata dalle pulsioni sadiche. Gli individui dotati di una simile personalità, secondo Abraham, “distruggono tutte le relazioni con l’ambiente, anzi tutta la loro vita, per l’ostinazione, l’invidia e la sopravvalutazione di sé” (v. Abraham, 1921; tr. it., p. 122).

Melanie Klein

Sono state le teorie elaborate da Melanie Klein sull’invidia a regalare a questo affetto un posto di primo piano all’interno della teorizzazione psicanalitica. Al sentimento invidioso l’autrice dedica il testo Envy and gratitude (1957), in cui all’invidia viene riconosciuto lo status di emozione in grado di influenzare profondamente le primissime esperienze del bambino. La Klein distingue nettamente il sentimento invidioso da quello della gelosia, notando come, anche tra gli psicanalisti, si tenda di frequente a confondere i due concetti. L’invidia sarebbe, a parere dell’autrice, un vissuto più precoce, una delle emozioni più primitive e fondamentali. La gelosia infatti si fonda sull’amore, mira al possesso dell’oggetto amato e all’eliminazione del rivale: questo presuppone un rapporto triadico, che si instaura in una fase piuttosto avanzata dello sviluppo psichico. L’invidia, invece, si colloca all’interno di una relazione duale, in cui l’invidioso invidia un possesso o una qualità all’invidiato.

Dato che l’emergere dell’invidia viene collocato agli albori della vita psichica del soggetto, è naturale chiedersi che cosa sia ciò di cui il piccolo bambino invidia il possesso, e a chi lo invidi. Per la Klein l’invidia originaria è quella che si prova verso il primo oggetto d’amore, vale a dire il seno materno, il seno che dà nutrimento. Il filo conduttore della teorizzazione kleiniana sta nell’assunzione della duplicità degli istinti che già Freud aveva proposto nella coppia di opposti istinto di vita/istinto di morte. Con la Klein questo dualismo si traduce nella contrapposizione tra ‘oggetto buono’ e ‘oggetto cattivo’. Fin dalla nascita, secondo la Klein, il bambino si trova all’interno di una precocissima relazione con un oggetto, il seno materno, nei cui confronti egli inizialmente sperimenta sentimenti di ambivalenza: il seno è buono quando dà nutrimento, cattivo quando lo nega e lo trattiene. È in questa seconda situazione che si collocano l’emergere e il manifestarsi dell’affetto invidioso: un affetto pericoloso se, come scrive la Klein, l’invidia è “uno dei fattori che maggiormente minano l’amore e la gratitudine alle loro radici, poiché essa colpisce il rapporto più precoce, quello con la madre. […] Ritengo che l’invidia sia l’espressione sadico-orale e sadico-anale di impulsi distruttivi, che essa entri in azione fin dalla nascita e abbia una base costituzionale” (v. Klein, 1957; tr. it., p. 9). Come si vede, quelle relative all’invidia, così come la intende la Klein, sono vicende altamente drammatiche; anche le conseguenze di questo sentimento tanto arcaico possono essere estremamente negative. La prima, fondamentale, è l’ostacolo che l’invidia pone al crearsi della scissione tra oggetto buono e oggetto cattivo, indispensabile al regolare procedere dello sviluppo psichico. Un eccesso di invidia impedisce anche il formarsi dell’immagine interna della coppia genitoriale, perché quanto più intenso è il sentimento invidioso, tanto più difficile risulta accettare l’esistenza di una relazione affettiva tra la figura del padre e quella della madre.

Anche Wilfred Bion, uno dei più importanti continuatori del pensiero kleiniano, sottolinea l’influenza negativa dell’invidia: questa intralcerebbe addirittura la formazione del pensiero che, per svilupparsi, ha bisogno che il soggetto sappia tollerare una certa quantità di frustrazione, vale a dire l’assenza del seno. Se, al contrario, la frustrazione fa scattare immediatamente l’attacco invidioso, il pensiero non trova spazio per essere elaborato. Lo stesso Bion (v., 1961) indica un’importante conseguenza del fenomeno invidioso anche nella dinamica di gruppo: all’interno di un tipo di gruppo particolare, che l’autore definisce ‘parassitario’, l’emozione dominante è proprio l’invidia, e attraverso essa il gruppo tenta di distruggere colui che al suo interno si fa portatore della creatività e di idee nuove, personaggio che Bion definisce il ‘mistico’.

Gli effetti dell’invidia primitiva postulata dalla Klein sulla strutturazione della personalità sono stati esaminati anche da Rosenfeld, un altro autore che ha sviluppato le tesi kleiniane. Rosenfeld (v., 1965) distingue due parti della personalità, una in grado di tollerare la dipendenza (che definisce “Sé libidico”), l’altra, dominata dall’invidia, che la porta a negare la dipendenza e a fantasticare di possedere tutto quanto le è necessario. Alla base di ciò sta la fantasia onnipotente di possedere completamente il seno. In una situazione di questo tipo la parte distruttiva e invidiosa della personalità viene idealizzata, assume caratteri seduttivi e controlla i meccanismi psichici. Secondo Rosenfeld tali meccanismi stanno alla base di gravissimi disturbi mentali.

Gustavo Pietropolli Charmet
[ Enciclopedia delle scienze sociali. TRECCANI ]

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(V. anche Emozioni e sentimenti).

BIBLIOGRAFIA

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