Dire che il coronavirus sta provocando l’effetto di uno tsunami sul mondo intero è dire poco. Uno, perché lo tsunami produce effetti limitati a una delimitata area geografica. Due, perché la conta dei danni, in vite umane e in disastri economici, causata dal flagello cinese potrebbe risultare di proporzioni stratosferiche rispetto al bollettino di morte di un maremoto.
Il coronavirus sta modificando la nostra vita a tal punto che il tracollo di Wall Street (1929), al confronto, potrebbe somigliare a un buffetto sulla guancia. La nuova «peste» ha pure messo sottosopra l’agenda della politica e l’approccio alla politica, tanto che alcuni temi scottanti rimasti in sospeso – basti pensare al voto regionale, alla Xylella e al siderurgico in Puglia – sono quasi spariti dai radar dell’informazione e dell’interesse generale.
Anche la politica non è e forse non sarà più la stessa. I rapporti di forza tra i partiti sono destinati a cambiare, perché il coronavirus è come la guerra che, si sa, non lascia mai le cose come stavano. Ovvio. Il conto più pesante lo pagheranno gli italiani, per una ragione assai semplice: non si vede in giro uno zio d’America in grado di farsi carico della ripresa economica. Tutti invocano un nuovo piano Marshall. Ma chi lo dovrebbe varare? Chi lo dovrebbe sostenere con il portafogli? Boh. L’Europa ha già lasciato intendere che allenterà la morsa dei vincoli finanziari, ma di più non potrà fare, pena la dissoluzione dell’Unione.
L’avvocatessa Christine Lagarde (Bce) ha sbagliato tempi e modi nella comunicazione, provocando, con le sue parole sullo spread, conseguenze incalcolabili, ma la monetizzazione del debito (il sogno di molti espansionisti) non potrebbe mai superare una certa soglia di tolleranza.
L’Italia è sotto osservazione. Sia per i riflessi umani e sanitari del virus, sia per quelli economici e politici. Finora il sistema politico, nonostante qualche scaramuccia iniziale, ha dato prova di sostanziale compattezza, come si conviene quando la patria è sotto assedio.
Chissà se muteranno anche la concezione e la prassi del potere made in Italy. Chi voglia saperne di più sul funzionamento reale dello Stato centrale; sugli arcana imperii; sui trucchi della nomenklatura; su burattini e burattinai; su segreti inconfessati e regole non dette; sui capricci di capi, capetti e capataz; sui retroscena del comando made in Italy dovrebbe affrettarsi a leggere Io sono il potere confessioni di un capo di gabinetto, magistralmente scritto da Giuseppe Salvaggiulo (anche se incredibilmente il suo nome non compare in copertina) per i tipi di Feltrinelli.
Nel libro un (anonimo) capo di gabinetto, autentica potenza di ieri oggi e, immaginiamo, anche domani, racconta al responsabile del servizio politico de La Stampa, con un approccio più guicciardiniano che machiavelliano, la realtà effettuale del Principato romano. Emerge un’Italia in cui la personalizzazione del potere prevale sulla sua spersonalizzazione, in teoria, garantita dalla legge, presumibilmente astratta e super partes. Emerge un’Italia in cui ogni legge nasce già corrosa da tornaconti personali e collettivi. Emerge un’Italia in cui le schermaglie dialettiche sui massimi sistemi nascondono quasi sempre i contrasti sulle nomine di sottogoverno e retrobottega, cioè sul controllo della roba.
È un Paese in cui l’istituto della raccomandazione, pilastro subculturale del «tengo famiglia» di Leo Longanesi (1905-1957), si fa davvero in quattro: preventiva, dissimulata, ostativa, triangolare. È un Paese in cui la tirannia burocratica (l’onnipotenza dei direttori generali di fronte ai precari ministri) non teme alcun tirannicidio. È un Paese che ha fatto sua, in maniera sistemica, la lezione di Alistair McAlphine (1942-2014), stretto consigliere di Margaret Thatcher (1925-2013): «Il vero potere è il potere dell’accesso». È un Paese in cui l’aspirante generone (un genere antropologico) mette a reddito la coltivazione delle onorificenze. È un Paese in cui il fascicolo deve camminare nei ministeri, ma stando sempre fermo. È un Paese in cui si fanno le leggi, ma provvederanno altri a interpretarle.
È un Paese che ha trasformato il carattere eccezionale dei decreti in ordinarietà quotidiana, con tanti saluti alla Costituzione più bella del mondo. Dice il capo di gabinetto stanato da Salvaggiulo: «L’abuso dei decreti legge è il bordello della Repubblica».
Ecco. In un Paese siffatto le leggi sono uno strumento al servizio della politica, non della comunità, e ultimamente, sempre più spesso, si offrono al pubblico con la clausola «salvo intese», supremo escamotage di legislazione creativa tesa ad approvare rimandando e a rimandare approvando.
Ma il libro-confessione, arricchito da rivelazioni a volte surreali ed esilaranti su riti e manie ministeriali, è un faro acceso sulla faccia nascosta della Luna (Potere). Una faccia dominata da capi gabinetto e direttori generali, uffici legislativi e eminenze grigie renitenti alla ribalta. Alcuni tra costoro sono autentici Cristiano Ronaldo in grado di segnare gol difficili nelle partite in cui i loro diretti superiori della politica sbaglierebbero pure a porta vuota. Altri però cercano di sopravvivere ai marosi puntando a salire sulle nuove imbarcazioni premiate dal vento elettorale. Ma una volta saliti, non ci vuole molto per gabinettisti e burocrati d’alto bordo ad impossessarsi del timone, lasciando intendere di non volerlo neppure sfiorare.
Dopo il coronavirus l’Italia si troverà ad affrontare una situazione forse più grave di una guerra militare perduta. Sarà necessaria come il pane una classe dirigente all’altezza, che si metta a remare per andare avanti, non indietro. La classe dirigente della seconda metà del secolo scorso mantenne fede alle promesse. Quella odierna non sappiamo. Servirebbe una classe burocratica e manageriale di eccelse virtù, in grado di sopperire alle magagne del ceto politico. Ma una classe di dignitari della burocrazia che si fa essa stessa ceto non è in grado di svolgere quel ruolo pedagogico, virgiliano, per l’interesse collettivo, che dovrebbe assolvere. Non a caso si invocano i grandi del secolo scorso, quelli che ci risollevarono dalle macerie del secondo conflitto mondiale.
Comunque. Bando alle illusioni. Come già avvertiva Aldo Moro (1916-1978), «si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con le sue difficoltà».
GIUSEPPE DE TOMASO
[ LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO ]