giovedì, 28 Novembre 2024

Israele-Palestina: così Trump archivia la soluzione dei due stati

Claudia De Martino [ ISPI ]

Per gli accordi di Oslo e la soluzione di pace a due stati il tempo è ormai scaduto: questo il principale messaggio dell’amministrazione Trump alla comunità internazionale, e ai palestinesi in particolare. Oslo, ovvero la spartizione della Palestina mandataria in due stati per due popoli che vivessero liberamente fianco a fianco, non è più un’opzione percorribile. Il presidente USA Donald Trump impone a tutti una lezione di realismo politico: Israele ha vinto il conflitto israelo-palestinese e la Palestina non sarà mai uno stato sovrano.

La vittoria innegabile di Israele, che corrisponde alla situazione ormai prevalente da molti anni sul terreno e completamente ignorata dalle cancellerie internazionali e dall’ONU, significa l’incedere di un nuovo paradigma politico sul quale improntare un “accordo di pace” le cui condizioni sono, appunto, dettate da Israele.

Gli elementi principali di questo nuovo possibile impianto sono i seguenti: gli insediamenti israeliani, fino ad oggi considerati dalla comunità internazionale “colonie” al massimo da condonare, non sono più un ostacolo a un accordo. Essi sono legittimi, questo dice il piano, e devono restare parte dello stato di Israele, anche perché ospitano 428.000 coloni che sarebbe impensabile sradicare ed evacuare dalle loro case. Israele può dunque annettere tutti gli insediamenti o annettere direttamente la Valle del Giordano (pari a 30% dell’attuale Cisgiordania) all’interno dell’area C che li comprende, equivalente al suo 61%. Tale annessione territoriale, però, lascerebbe comunque fuori 15 enclave – a lungo definiti avamposti illegali dalla stessa stampa israeliana – alle quali verrebbe comunque estesa la sovranità israeliana e che verrebbero collegate alla “madrepatria” attraverso strade e ponti.

Israele otterrebbe anche tre vittorie simboliche, ma fondamentali dal punto di vista dell’opinione pubblica interna: il diritto di custodire i luoghi sacri, incluso quello di ammettere formalmente gli ebrei a pregare sul “Monte del Tempio”, meglio noto come Spianata delle Moschee, il riconoscimento internazionale dell’indivisibilità di Gerusalemme come capitale di Israele e quello di Israele come stato ebraico. Di fronte a questa vittoria totale, non solo dal punto di vista delle concessioni territoriali ma anche di quelle simboliche operate a netto vantaggio della narrativa israeliana, il costo della pace imposto a Israele sarebbe minimo: Gerusalemme dovrebbe riconoscere la legittimità di uno stato palestinese al suo fianco e congelare la costruzione di nuovi insediamenti per i prossimi quattro anni. Ovvero l’orizzonte che l’amministrazione Trump si è data per negoziare i dettagli del piano con tutte le parti coinvolte, ovvero per smussare le ovvie resistenze palestinesi.

Ai palestinesi viene, al contrario, richiesto di compiere significativi passi per raggiungere la “pace”. La prima rinuncia, forse la più grave dal punto di vista simbolico ma anche identitario per la comunità nazionale palestinese, è quella al pari diritto ad ottenere i sobborghi orientali di Gerusalemme come propria capitale. Il piano del presidente statunitense adotta completamente la prospettiva israeliana, accettando la costruzione della barriera difensiva israeliana come premessa ad una divisione iniqua della città in due sezioni, delle quali la seconda – Gerusalemme est – comprensiva di quartieri palestinesi popolosi ma nuovi e privi di luoghi storici e religiosi di interesse. La nuova capitale del futuro stato di Palestina sarebbe così Abu Dis e sarebbe disconnessa dalla città vecchia e dai luoghi sacri, nonché da altri quartieri a maggioranza araba localizzati all’ovest della barriera.

La seconda rinuncia è quella al diritto al ritorno dei rifugiati: il piano di Trump prevede infatti un riconoscimento simbolico pari al rientro di circa 50.000 rifugiati – ovviamente solo in direzione del futuro stato palestinese –, e il ricollocamento, anche grazie ad un generoso piano di aiuti internazionali, nei rispettivi stati arabi ospitanti (Giordania, Libano e Siria in primis).

La terza rinuncia imposta è quella alla continuità territoriale interna, dal momento che la colonia Ma’aleh Adumim e l’annessione ufficiale di molti insediamenti israeliani incastonati all’interno della Cisgiordania rende già impossibile la continuità territoriale tra le principali città palestinesi oggi comprese nell’area A prevista dagli accordi di Oslo.

La quarta e non meno grave sarebbe quella alla contiguità territoriale con il resto della regione e dei paesi arabi limitrofi, spezzata dall’assegnazione dei confini con la Giordania (la striscia di territorio ad ovest del Giordano, inclusiva dei due ponti di Allenby e di Adam) allo stato di Israele per garantirne la sicurezza strategica.

Poiché Israele annetterebbe parte dell’attuale Cisgiordania, compensazioni territoriali a favore del futuro stato palestinese sono previste nel deserto del Negev, e in particolare su una superficie pari a 14% di Israele contigua alla Striscia di Gaza che oggi, oltre ad essere desertica, è anche spopolata. Qui sarebbe prevista dal piano la costruzione di un futuristico parco industriale corredato da un’aria agricola hi-tech, grazie ai miliardari investimenti che sarebbero indirizzati alla Palestina (50 miliardi di dollari).

Infine, il futuro stato di Palestina, solo nominalmente autonomo e sovrano, soffrirebbe di alcune pesanti limitazioni alla sua sovranità: dovrebbe rimanere uno stato demilitarizzato, non avrebbe confini con altri stati ad esclusione di Israele dal quale sarebbe circondato da tutti i lati, dovrebbe necessariamente disarmare Hamas per poter instaurare una continuità con una Striscia di Gaza riaperta ai traffici commerciali e non più soggetta a embargo e non potrebbe più sostenere finanziariamente “le famiglie dei martiri”, ovvero dovrebbe rinunciare ai trasferimenti che l’Autorità Nazionale Palestinese compie periodicamente a favore dei familiari di coloro che si sono impegnati per la “Resistenza”, imponendo una profonda discontinuità alla sua storia.

Non sorprende che i palestinesi abbiano reagito convocando una riunione di unità nazionale d’urgenza che ha raccolto sia Hamas che al-Fatah, cercando di elaborare una risposta congiunta di rifiuto del piano, nel disperato tentativo di ottenere un sostegno da parte degli sati arabi, dell’Organizzazione della conferenza islamica e dell’ONU. Tuttavia, non c’è da farsi alcuna illusione in merito: una rappresentanza diplomatica araba – Oman, Emirati Arabi Uniti e Bahrein – era presente all’annuncio del piano alla Casa Bianca, accogliendolo senza obiezioni, mentre gli stati europei sono consapevoli di non poter rovesciare – e non avere la volontà politica di farlo – un processo irreversibile che è già in corso da oltre 30 anni sul terreno. Infine, l’unità nazionale palestinese sarebbe davvero una buona notizia, ma è difficile da realizzarsi, dal momento che l’ultima azione del presidente Mahmud Abbas a dicembre 2018 è consistita nel dissolvere una delle ultime istituzioni dell’OLP (il Consiglio Legislativo Palestinese) in cui Hamas aveva più seggi e che, dunque, tutte le istituzioni nazionali palestinesi sarebbero da rifondare.

Trump e Israele hanno ragione: indipendentemente dalla realizzazione immediata del piano e dei dettagli in esso contenuti, il primo risvolto del suo annuncio ufficiale sarà visibile da subito. Il paradigma politico e diplomatico è cambiato e da oggi non si potrà più far finta che le due parti godano di pari diritti nella spartizione della terra di quella che fu, settant’anni fa, una Palestina mandataria unita ormai consegnata alla storia. Ai palestinesi rimangono sempre due scelte radicali quanto strategiche: dissolvere l’ANP e annullare il coordinamento di sicurezza con Israele. Esse avrebbero il merito di inseguire Trump e Israele sul loro nuovo paradigma, ma alzando enormemente i costi della “posta in gioco”, scompaginandone completamente le carte.

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Claudia De Martino
[ ISPI ] Istituto per gli Studi di Politica Internazionale