I grandi eventi hanno molti padri, ma credo che il crollo del muro di Berlino e il collasso del blocco sovietico siano dovuti soprattutto alla politica riformatrice che Michail Gorbaciov annunciò durante il XXVII° congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) e, in particolare, ai suoi pessimi rapporti con la Repubblica Democratica tedesca (DDR). Il leader sovietico voleva trasportare l’intero blocco nelle braccia della perestrojka e fece del suo meglio, fra il 1986 e il 1989, per convincere i satelliti, con visite personali, a imitare la casa madre.
Attribuiva una particolare importanza alla Germania orientale perché la DDR era il paese comunista che meglio aveva saputo creare un rapporto costruttivo fra ricerca scientifica e sviluppo industriale. Ma la dirigenza di Berlino Est diffidava della perestrojka e, in modo particolare, della glasnost’. Il dissenso divenne pubblico in occasione delle celebrazioni per il quarantesimo anniversario della fondazione della Deutsche Demokratische Republik nell’ottobre del 1989. Gorbaciov andò a Berlino, partecipò ai festeggiamenti, constatò ancora una volta le perplessità di Erich Honecker e disse pubblicamente nel corso di una intervista che “il tempo punisce chi non si accorge del suo passaggio”.
La Sed (acronimo del partito comunista della DDR) sostituì Honecker con un altro esponente del partito, ma una grande manifestazione popolare a Lipsia e lo smarrimento della dirigenza di fronte alla folla che voleva passare da una Berlino all’altra segnarono la fine del muro. Nel giugno del 1953, quando gli operai di Berlino, dopo la morte di Stalin, avevano riempito Alexander Platz per protestare contro le loro condizioni di vita, i dirigenti sovietici avevano ordinato ai comandi delle forze sovietiche in Germania (circa 200.000 uomini) di usare i carri armati. Nell’ottobre del 1989 Gorbaciov ordinò ai carri armati di restare in caserma. Fu evidente che era profondamento convinto della necessità delle sue riforme e disposto a permettere manifestazioni di democrazia che pochi anni prima sarebbero stati considerate troppo rischiose.
La crisi della DDR aprì un inevitabile dibattito sulle relazioni che si sarebbero dovute instaurare fra i due stati tedeschi e sembrò farsi strada, soprattutto negli ambienti social-democratici, la convinzione che le due Germanie dovessero conservare la loro identità e stringere un rapporto confederale. La soluzione sarebbe piaciuta al presidente francese François Mitterrand, a Giulio Andreotti (presidente del Consiglio dal luglio 1989 all’aprile 1991) e soprattutto al primo ministro britannico, Margaret Thatcher, che in una conversazione con Michail Gorbaciov a Mosca, nel settembre del 1989, aveva persino detto di essere favorevole alla conservazione del Patto di Varsavia. Una larga parte dell’establishment politico europeo sembrava convinta che la crisi dello stato comunista tedesco non dovesse intaccare i rapporti di forza e gli equilibri che regolavano allora le relazioni fra i due blocchi. La diplomazia della Guerra fredda aveva assicurato al mondo 4 decenni di pace. Perché risvegliare vecchi dissidi e rischiare nuovi conflitti?
Le cose, come sappiamo, andarono diversamente. Helmut Kohl, cancelliere della Repubblica Federale, volle l’unificazione e la ottenne quando persuase la Banca Centrale della Repubblica Federale ad accettare che i due marchi, quello dell’ovest e quello dell’est, avessero lo stesso valore. Conquistò così il consenso dei tedeschi dell’est. Ma contemporaneamente fu anche creato un organismo (la Treuhandstalt) che ebbe il compito di privatizzare tutte le aziende statali della DDR: una operazione che si rivelò molto costosa ed ebbe inevitabili ripercussioni sulla politica sociale dei lander annessi (la parola “annessione” fu usata da Guenter Grass in un libro del 2009, Unterwegs von Deutschland nach Deutschland, “In viaggio dalla Germania alla Germania”).
L’unificazione tedesca ebbe inevitabili ricadute sugli affari europei. Nel 1991 il governo tedesco intervenne nella crisi balcanica riconoscendo l’indipendenza della Slovenia e della Croazia. Nei mesi precedenti la crisi della Jugoslavia ne aveva già dimostrato la fragilità; ma il riconoscimento delle sue due repubbliche settentrionali mise bruscamente fine a qualsiasi tentativo di ricomporre l’unità dello stato e regalò alla Germania una posizione dominante nella penisola balcanica.
Contemporaneamente Berlino premeva perché i satelliti dell’Urss divenissero membri dell’Unione Europea. Esisteva effettivamente la necessità di dare agli stati dell’Europa centro-orientale una stabile collocazione europea; ed era comprensibile che la Germania desiderasse avere paesi prosperi e amici sulle sue frontiere orientali. Ma non si volle prestare attenzione al fatto che fra i vecchi e i nuovi membri della UE vi erano importanti differenze. Quasi tutti i primi avevano partecipato al grande dibattito del Secondo dopoguerra sui nazionalismi e sulle loro responsabilità politiche ed economiche, soprattutto negli anni Trenta.
Dopo una lunga esperienza democratica, quei paesi condividevano il desiderio di una Europa sempre più federale ed erano pronti a sacrificare, sia pure gradualmente e prudentemente, la loro sovranità. I nuovi candidati, invece, avevano fatto esperienze diverse ed erano stati, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, membri spesso riluttanti del blocco sovietico.
Era prevedibile che Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e gli stati dei Balcani, considerassero la fine del Patto di Varsavia, il recupero della sovranità nazionale e la protezione degli Stati Uniti più attraenti, almeno per un certo periodo, di una Europea federale. Per questi paesi sarebbe stato meglio scegliere la formula della associazione, come è accaduto per altri paesi, e ritardare il momento in cui i nuovi arrivati avrebbero avuto il diritto di partecipare al voto sulle questioni di maggiore importanza. Non basta: l’allargamento della Unione Europea agli ex satelliti dell’Urss fu anche un regalo alla Gran Bretagna. Gli inglesi non volevano l’integrazione e sapevano che sarebbe stata tanto più difficile quanto più numerosi sarebbe stati i membri dell’Unione.
La caduta del muro ebbe anche l’effetto di accelerare la crisi dell’Unione Sovietica. Ma le maggiori responsabilità in questo caso sono delle riforme di Gorbaciov e del modo in cui vennero accolte e interpretate a Mosca, a Leningrado nelle Repubbliche del Baltico e in quelle del Caucaso.
Sergio Romano
[ ISPI Istituto per gli Studi di Politica Internazionale ]