I poveri cercano sempre medicine contro la propria miseria e spesso ne trovano alcune che non risolvono le fragilità delle loro vite, ma danno un temporaneo sollievo al tormento psicologico che nasce dall’impotenza e dall’umiliazione: una di queste è la paura e l’avversione per chi sta peggio di loro, per i miseri, quelli più poveri dei poveri, che cercano un tetto e un pane nelle loro stesse contrade.
Le parole di Zymgunt Bauman illuminano quello che accade in molte nazioni occidentali, tra cui l’Italia, dove la globalizzazione ha impoverito il ceto medio e spinto molti sotto i vecchi di livelli di sussistenza. Sono i nuovi poveri che «fatalmente» guardano con sospetto e paura quanti, dalle periferie del mondo, cercano da noi il pane che i nostri padri avevano cercato dall’altra parte della Terra.
Quando si imbatte con quanti lasciano i loro Paesi per motivi sociali, economici o bellici, la nostra classe media, fa fatica a rileggere le pagine del nostro passato e a ridare vita alla sofferenza dei nostri nonni che avevano percorso, all’incontrario, le medesime rotte dei migranti di oggi. I nostri nuovi poveri si sentono offesi, rabbiosi, sgomenti, spaventati. Avvertono di essere esposti, si scoprono vulnerabili, diventano gelosi del poco che hanno, egoisti di tutto: o appunto di niente, perché l’egoismo sociale funziona anche come forma identitaria di riconoscimento sociale e di auto-rassicurazione.
Va così in scena una guerra fra poveri, una vera e propria nuova lotta di classe, che mette di fronte la modernità ormai logora della democrazia occidentale con la primordialità dei mondi disperati che prendono il mare per cercare sopravvivenza, e nient’altro. Ma se la profonda avversione dei nostri nuovi poveri verso gli immigrati può essere letta (anche se non giustificata) nel quadro degli effetti devastanti della globalizzazione, non ha alibi la semina di odio che spesso viene da un ceto colto, da molti intellettuali, che pure dovrebbero avere gli anticorpi culturali per non cedere alla narrazione che istiga alla cattiveria.
E invece c’è stata e continua ad esserci una predicazione culturale, prima ancora che politica, che in questi anni ha individuato nel migrante e nel profugo non l’effetto, ma la causa di tutti i mali. Nella storia delle nazioni quando le identità sono in crisi, se ci sono troppi rischi e poche certezze, se il futuro appare oscuro, è già accaduto che gli umori primitivi di una folla che si sente vittima inascoltata si orientino contro un nemico creato ad arte da astuti politici. L’immigrato è il colpevole, attira su di sé la responsabilità per ogni male che attraversa la società, distrae dagli altri problemi sociali, disegna una nuova linea di confine tra le forze politiche, quelle amiche del popolo e quelle nemiche del popolo perché, appunto, amiche degli immigrati.
Questa semina dell’odio si riduce all’individuazione di un capro espiatorio buono per tutte le occasioni, anche elettorali. Così, degli immigrati, si dimentica volentieri che partecipano come gli italiani alla produzione di ricchezza del paese (con il surplus prodotto dagli immigrati si pagano circa 65.000 pensioni di autoctoni), che in larga parte lavorano onestamente nelle nostre case, nelle nostre officine e negozi, e che del nostro paese condividono anche difficoltà e contraddizioni: e diventano solo il parafulmine delle nostre frustrazioni.
E, dei richiedenti asilo, si dimentica che hanno una storia concreta e individuale di sofferenze, che sono esseri umani ma che diventano una categoria astratta di nemici. La violenza, accompagnata da un linguaggio di disprezzo, è spesso il frutto di una predicazione dell’odio nei confronti di chi si ritiene diverso, alimentata da pregiudizi e ignoranza o da colpevoli strumentalizzazioni. È questa semina culturale e politica che legittima e guida atti forti, estremi mentre tutti dovremmo avere sempre a mente quanto ha scritto il drammaturgo britannico Hanif Kureishi e cioè che «le parole sono azioni. Fanno accadere le cose. Chi ne fa un uso improprio ne è assolutamente responsabile. Fino in fondo».