Più la politica si trasforma in una questione di Palazzo, in una gara di potere e visibilità, più i contenuti e i programmi assumono colori autunnali, sfumati. Mai come adesso la contesa tra partiti, correnti e sottocorrenti somiglia a un cocktail di tatticismo e carrierismo, due ingredienti in verità diffusi anche in passato, ma, diversamente da ieri, oggi è impressione comune che questi due fattori siano diventati l’ossessione esclusiva di nomenklature, mandarinati e potentati vari. E quando la conquista del potere diventa l’unico assillo dell’attività politica, non è un bel momento per la democrazia e per l’economia.
Il guaio più grave è la stretta correlazione tra arrivismo personale e lassismo gestionale. Più la classe dirigente ha retropensieri «estrattivi» (utilizzare la cosa pubblica per vantaggi individuali o privilegi corporativi), più cresce la spesa pubblica figlia di un micidiale imperativo categorico: l’acquisizione del consenso a tutti i costi, senza, appunto, badare a spese. Una linea di condotta assai diversa rispetto alla programmazione della spesa pubblica necessaria, cioè quella per servizi sociali e investimenti infrastrutturali. Purtroppo, spesso, dietro interventi di dichiarata valenza universale, si nascondono benefit sostanziosi per i più furbi, ossia per le razze predone del centro e della periferia.
Non a caso si rincorrono discorsi astratti e fumosi, sulla carta tutti improntati al bene comune e tutti orientati a voler risolvere il problema della stagnazione economica. Solo che, per dire, la parola «impresa» è poco gettonata nelle perorazioni a favore di questa o quell’altra ricetta anti-crisi. Ma se non provvedono le imprese a creare posti di lavori, chi dovrebbe o potrebbe farlo al loro posto? Lo Stato?
Lo Stato dovrebbe farlo per i compiti e i servizi essenziali che gli competono (sanità, scuola e opere pubbliche innanzitutto), ma per il resto è meno attrezzato del capitale umano privato. Solo che alle imprese si guarda con atteggiamenti di sospetto, preconcetto e a volte di ostilità, nel miglior dei casi con una logica colbertista, di eterodirezione. La qual cosa non costituisce una solida garanzia per la libertà economica né per la moralità del settore.
Fateci caso. La parola concorrenza è sfuggita a tutti i radar degli analisti. Sparita come Mina, la cantante. Eppure la concorrenza è l’unica procedura di scoperta di cui si sia accertata l’efficacia. Invece niente. Il Potere ritiene di possedere tutte le informazioni giuste per indirizzare e guidare l’economia di una nazione o di una regione. Ma le informazioni raccolte, oltre ad essere oggettivamente incomplete e spesso sbagliate, non possono mai immaginare, ad esempio, quale potrebbe essere l’evoluzione dei gusti dei consumatori o delle necessità degli utenti. Di conseguenza, ogni politica industriale deve vedersela con il classico «cigno nero» che rovescia le sue previsioni e destabilizza le sue certezze; o dovrebbe fare i conti con la voracità di chi, appunto, nutre propositi «estrattivi» nei confronti del patrimonio collettivo.
Purtroppo, in Italia la politica industriale non si declina, né si traduce, in politica per l’industria, come dovrebbe essere, ma in una selva di favori e incentivi a beneficio della razza faccendiera, in particolare di quella fascia di pseudo-imprenditoria lesta a puntare sul cavallo giusto, ossia vincente. Cosicché sovente, la politica industriale, nel Belpaese, consiste in sostegni sostanziosi per chi si è distinto solo come finanziatore di campagne elettorali. La qual cosa penalizza le imprese più sane ed efficienti, quelle che non hanno bisogno della protezione politica per farsi largo. Il che, per altro, costituisce un perverso messaggio, una cattiva pedagogia per gli aspiranti produttori di ricchezza.
Non è solo il Sud a patire, e ad offrire, modelli patologici. Il Nord non è da meno nei comportamenti corruttivi tra pubblico e privato, come dimostrano le inchieste delle procure e le collezioni dei giornali.
Il Nord è impegnato da tempo in una battaglia, per l’autonomia differenziata di tre sue regioni, il cui consuntivo finale, in caso di sì alle richieste del Lombardo-Veneto, potrebbe consistere in un ulteriore balzo della spesa pubblica.
Gira e rigira. Tutti vogliono spendere di più. Chi, pur di spendere, si nasconde dietro il mantello dell’autonomia regionale. Chi, pur di fare politica con il pubblico denaro, si nasconde dietro il paravento della redistribuzione. Chi, pur di spendere per gli amici di cordata, si nasconde dietro il muro dell’ambientalismo radicale (vedi la longa manus della criminalità sulle energie alternative e rinnovabili). Pur di strappare rendite da nababbi, si tende a ignorare ogni remora a tutela della concorrenza. Ma può, un Paese, svegliarsi da un sonno pluridecennale, senza fare atto di contrizione per il suo sistema economico oligopolistico e assistito proprio perché afflitto dal deficit della principale infrastruttura (immateriale) che crea sviluppo, vale a dire la concorrenza?
Invece, a giudicare dal dibattito in corso e dalle dichiarazioni televisive, sembrerebbe che lo Stivale sia l’Eldorado in terra, che il debito pubblico sia un’invenzione della Spectre e che la disoccupazione sia un lontanissimo ricordo di mitomani catastrofisti.
Il paradosso è che la voglia matta di spendere va a scontrarsi con l’incapacità della pubblica amministrazione di spendere (subito e bene). O meglio. Si è più veloci di un Eurostar quando è in ballo l’acquisizione, lo shopping del consenso immediato. Si è più lenti di una lumaca quando è in ballo la capacità di fare progetti di lunga portata, di realizzare investimenti infrastrutturali in grado di migliorare la vita quotidiana della gente comune, delle famiglie e delle imprese.
L’Europa economica è sorta per favorire, non per ostacolare la concorrenza. Oggi, invece, nonostante le rinate attestazioni di lealtà versi i dettati comunitari, la concorrenza, specie in Italia, è meno praticata della castità in un set di film porno. E nonostante la concorrenza meriti di essere salvaguardata come una reliquia sacra, i più si voltano dall’altro lato, o fanno finta di non capire. Vedi il saccheggio patito dai giornali a opera della pirateria on line, che di questo passo rischia di assestare un colpo mortale alla stampa, alla giustizia e alla stessa economia. Ma questo problema ha bisogno di un ragionamento ad hoc.
Mille discorsi, mille comparsate televisive, mille convegni, ma la concorrenza è il nuovo fantasma della Penisola.