«Non posso governare da solo, e da solo non posso andare avanti all’infinito». Fa un lungo preambolo, ma alla fine pronuncia le fatidiche parole: è pronto a salire al Colle, a «rimettere il mandato nelle mani del presidente della Repubblica, se le forze politiche non si assumeranno le loro responsabilità e non lo faranno in modo chiaro e rapido». Una sorta di ultimatum istituzionale, con lo spettro di una crisi a breve termine ed elezioni subito dopo l’estate. I toni della conferenza stampa di Giuseppe Conte sono felpati, ma alla fine la conclusione è che «non ho alcuna intenzione di vivacchiare o galleggiare, posso anche togliere il disturbo». Conte inizia in leggero ritardo, ricordando l’entusiasmo del suo esordio, ma anche lo scetticismo per la novità del contratto e persino della sua figura, un neofita della politica. «Privo di una mia propria forza politica», ma «forte della Costituzione e dei poteri del presidente del Consiglio».
E forte di questi poteri si struttura anche l’ultimatum, che ha come premessa un bilancio del primo anno, insieme alla necessità di attuare e monitorare tutti i provvedimenti approvati, insieme a un lungo elenco di cose ancora da fare, dalla riforma del fisco a quella della giustizia, sino alla manovra economica, che si annuncia «complessa», foriera di «scelte delicate» ma tenendo «i conti in ordine», perché siamo sempre esposti «alla fiducia dei nostri investitori», collegata alle esternazioni dei protagonisti della maggioranza. E qui arriva il messaggio centraleche il premier vuole veicolare: non si può né lavorare né proseguire con un «clima di campagna elettorale permanente», che ha avuto effetti negativi sull’azione di governo, perché governare non significa «indugiare sulle freddure a mezzo social e le veline a mezzo stampa. Questo pregiudica la concentrazione sul lavoro», mentre «collezionare like nella cosiddetta agorà digitale» significa solo perdere tempo e mettere sabbia nell’azione del governo. «Il mio motto è sobri nelle parole e operosi nelle azioni, ma se continuiamo nelle provocazioni per mezzo di veline quotidiane, nelle freddure a mezzo social, non possiamo lavorare».
È chiaro, anche se non lo cita, che il messaggio è più diretto a Salvini che a Di Maio, più al vincitore che allo sconfitto. È il primo a dover dire se ha davvero voglia, e come, di andare avanti. «I risultati elettorali hanno creato grande esaltazione nei vincitori e grande delusione negli sconfitti. Lavorare nell’interesse del Paese significa avere un atteggiamento costruttivo di lungo periodo», aggiunge Conte. «Gli italiani vogliono che andiamo avanti, con la massima concentrazione. Io stesso voglio fare e impegnarmi di più ma le polemiche sterili le discussioni inutili sottraggono energie preziose e distraggono dagli obiettivi». La durata del governo «non dipende solo da me». Occorre «leale collaborazione fra alleati e fra membri del governo», significa informazione, trasparenza, ogni ministro concentrato sulle materie che gli competono senza prevaricare ambiti e deleghe altrui, rispettando la grammatica istituzionale e non lanciando segnali ambigui sui giornali, o ancora cedendo «a provocazioni».
Infine, la conclusione e la richiesta, quella sorta di ultimatum, ma senza una scadenza: «Chiedo dunque a entrambe le forze di operare una chiara scelta, e di dire se hanno intenzione di proseguire o se preferiscono riconsiderare questa posizione, forse perché coltivano la voglia di una nuova competizione elettorale. Io non mi presterò a vivacchiare o a galleggiare, senza una chiara assunzione di responsabilità e senza comportamenti conseguenti, rimetterò il mandato nelle mani del presidente della Repubblica. Decidano con una risposta chiara e inequivoca, e anche rapida, perché il Paese non può attendere».