lunedì, 25 Novembre 2024

LA DIFFICOLTÀ DI TROVARE UN ARBITRO IMPARZIALE

GIUSEPPE DE TOMASO (LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO)

Il primo dovere di uno Stato è fare rispettare la Legge. Uno Stato che riuscisse in questo intento sarebbe uno Stato da applausi a scena aperta, da additare alla standing ovation da parte del resto del mondo. In Italia, però, lo Stato preferisce gestire in proprio, più che regolare le varie attività e controllare i relativi protagonisti. E quando lo Stato (cioè chi detiene il potere) non riesce a gestire qualcosa, rinuncia pure – ecco il paradosso – a regolare e controllare gli altri operatori.

Non sappiamo quali saranno le conseguenze politico-programmatiche della tragedia di Genova. Sappiamo solo che i nostalgici dello Stato gestore stanno riprendendo vigore reclutando proseliti anche negli ambienti più insospettabili di statolatria. Viceversa, appaiono afoni o sotto tono i sostenitori dello Stato regolatore che, in verità, anche per colpa dello stesso regolatore, non ha mai goduto, nello Stivale, di sufficiente popolarità, e né ha dato dimostrazione di una sia pure minima efficienza.

Diciamolo. Lo Stato gestore, che poi è la versione eufemistica dello Stato padrone, è uno Stato tentatore che solletica gli appetiti dei partiti. Con lui può crescere il numero di supporter e fedelissimi da piazzare nelle aziende pubbliche, si possono moltiplicare le opportunità di fare clientela dove meno te lo aspetti, possono aumentare le occasioni di controllo partitocratico nella società.

Al contrario lo Stato regolatore dovrebbe limitarsi a svolgere il ruolo dell’arbitro in una partita di calcio, sanzionando le irregolarità e utilizzando il cartellino rosso per i falli più gravi. Ma lo Stato regolatore all’italiana è la caricatura di uno Stato regolatore di cultura anglosassone. Lo Stato regolatore all’italiana è un crocevia di interessi pubblici e privati, di scandalosi vantaggi individuali e di anacronistici criteri burocratici (lentocratici). Insomma, è uno Stato complice anziché uno Stato imparziale e severo.

La strage di Genova dovrebbe suggerire un ripensamento o, addirittura, una palingenesi dello Stato regolatore, in direzione di uno Stato che sorvegli e che provveda innanzitutto a fare rispettare la Legge. Invece, la sensazione più diffusa è che lo Stato padrone voglia e possa riprendere il sopravvento su tutto e tutti, a dispetto delle prove tutt’altro che esaltanti da lui fornite finora.

Per dire: il gestore privato ha peccato e fallito alla grande nella manutenzione del ponte Morandi a Genova, ma le strade del Belpaese gestite dalla mano pubblica non si distinguono certo per sicurezza e modernità. Per non dire dei costi di gestione e manutenzione (cara e lasca nello stesso tempo) delle infrastrutture pubbliche: più proibitivi di un programma spaziale per l’approdo su Marte.

Vengono i brividi al solo pensiero che il mega-programma di ammodernamento infrastrutturale sollecitato da studiosi ed esperti possa essere ispirato da logiche politiche e affidato a mandarini e feudatari vari. Altro che Stato padrone. Servirebbero autorità davvero indipendenti e arbitri col passaporto straniero, e non è detto che entrambe queste tipologie di garanti riuscirebbero a farsi largo in un Sistema congegnato per la sub-cultura malloppiera e anti-produttiva.

Eppure bisogna affrettarsi. Il caso Genova ha provocato più contrasti di una guerra mondiale, ma tutti gli antagonisti hanno convenuto su un punto: senza un piano per la messa in sicurezza delle infrastrutture stradali e residenziali, l’Italia rischia di trasformarsi nel Paese dei crolli e tracolli. Le nostre infrastrutture pubbliche e private sono vecchie e si avviano verso il definitivo collasso. Non si può restare a guardare.

E pensare che solo pochi decenni addietro alcune opere pubbliche, in Italia (sì in Italia), venivano inaugurate in anticipo sui tempi previsti. E pensare che, nonostante un’elevata conflittualità politica, i progetti infrastrutturali non rimanevano soltanto sulla carta. Poi è sopraggiunto lo stop generale. Abbasso le grandi opere, abbasso pure la manutenzione ordinaria.
Servirebbe una rivoluzione culturale che unisse la cultura del risultato alla cultura della procedura. Ma anche questo auspicio potrebbe rivelarsi eccessivamente pretenzioso e ambizioso, non foss’altro perché, strada facendo, in Italia, opacità delle norme, frantumazione delle competenze e frammentazione delle responsabilità hanno toccato livelli bizantini. Il che rende complicata persino la costruzione di un asilo nido.

Dice bene il professor Nicola Rossi: opere di rilievo nazionale non possono essere deliberate dalle Regioni, la cui ossessione per l’autonomia spesso raggiunge punte inimmaginabili.

Servirebbe, in proposito, anche una visione condivisa tra maggioranze e opposizioni. Ma se c’è una materia che vede la classe politica spaccata in due come una mela, questa riguarda il capitolo delle opere pubbliche, specie quelle di portata rilevante.
Speriamo che sia un brutto sogno, altrimenti, a furia di litigare, il Belpaese precipiterà a pezzi.

CODICE ETICO E LEGALE