La lotta al Male (vorremmo non chiamarlo più per nome, una volta tanto) ha ancora bisogno di interventi e sforzi straordinari. Nuove strutture di terapia intensiva, personale specializzato, attrezzature, mezzi finanziari. E ha bisogno di tutti noi. Non dobbiamo mollare. I giorni decisivi sono questi. Le immagini dell’impegno senza sosta di medici e infermieri, sono esempi di dedizione professionale e di altruismo che commuovono e suscitano l’ammirazione del mondo. Molti di loro hanno perso la vita per salvare quella degli altri. La nostra gratitudine nei loro confronti è infinita. Ci permettiamo di proporne la visione (con quello che sta succedendo in ospedali di altri Paesi) alla prossima riunione a distanza dei vertici europei. Utile più di tante parole e troppi distinguo.
Pur nelle polemiche, il Paese è unito, disciplinato, disponibile a sacrificarsi accettando, se necessario, misure più stringenti. La resistenza al Male di coloro che stanno forzatamente a casa ha bisogno però di continue iniezioni di fiducia, di segnali corretti su quello che accadrà dopo. La fiducia è un ingrediente prezioso, il collante del nuovo senso civico. Se dispersa o tradita allenta lo sforzo sovraumano che il Paese sta producendo nella lotta al virus. Si alimenta di prudente realismo non di scenari ingannevoli. O di promesse buttate lì, che non si sa come garantire. Solo nelle ultime ore: un ipotetico reddito di emergenza universale e l’aiuto a tutti i lavoratori in nero (3,7 milioni secondo l’Istat). La crisi mette a repentaglio la tenuta sociale in alcune zone del Paese. Lo si è visto in questi giorni. Ma creare illusioni rischia di accendere il fuoco della rivolta anziché spegnerlo.
Si ripete continuamente che nessuno perderà il posto di lavoro per colpa del virus. È una pietosa bugia. Sappiamo tutti che non sarà così. In una sola settimana negli Stati Uniti 3,3 milioni di persone hanno chiesto sussidi di disoccupazione. In Italia si stima (Cerved) che almeno il 10 per cento delle aziende fallirà. Sono posti che spariscono. E forse sono già stati cancellati. Decine di imprese, costrette alla chiusura non saranno in grado di riaprire o di recuperare il fatturato in filiere interrotte dal crollo dei mercati. Nemmeno il più ottimista degli osservatori può pensare che un Paese possa sopportare a lungo il costo di diverse forme di integrazione al reddito pari a 13,5 miliardi al mese (Ufficio parlamentare di bilancio).
Non possiamo correre il rischio di veder fallire lo Stato. E a questo proposito, sono irresponsabili e stridenti le promesse di un «anno bianco» sotto il profilo fiscale, perché la mancanza di liquidità metterebbe a rischio il pagamento di pensioni e stipendi e vanificherebbe gli sforzi sul piano dell’emergenza sanitaria. Chi può paghi. Chi non può verrà aiutato al massimo. I furbi sono i nuovi sciacalli. È una esortazione antipatica, brutale, lo sappiamo. Ma necessaria. L’interruzione del circuito dei pagamenti — che dovrebbe essere sostenuto da ampie garanzie sul piano bancario e dai prestiti a tasso zero a famiglie e aziende — crea un vortice infernale. Travolge tutti. La sospensione degli adempimenti fiscali riguarda per ora il mese di marzo (sull’attività di febbraio in gran parte ancora regolare). Tra giugno e luglio si avrà la prova della verità sulle denunce dei redditi conseguiti nel 2019. Quanti di questi contribuenti avranno la liquidità sufficiente per essere in regola?
Si discute molto in questi giorni sulla possibilità che l’Unione Europea emetta strumenti finanziari per contrastare la recessione e rilanciare gli investimenti, in particolare nell’area sanitaria. La dichiarazione di ieri di Ursula von der Leyen contraria ai coronabond non lascia grandi speranze. Senza entrare negli aspetti tecnici già affrontati da numerosi articoli sul Corriere (ieri Mario Monti) e da altri autorevoli interventi (Romano Prodi sul Messaggero e Carlo Cottarelli sulla Stampa), occorre non illudere gli italiani. Esiste pur sempre una differenza tra la beneficenza e il credito per quanto agevolato. E la prima non ce la fa nessuno.
I debiti sono sempre debiti. Anche se sarebbe auspicabile che quelli contratti per la lotta alla pandemia e per il rilancio europeo fossero condivisi. Solo quelli, non gli altri. Quando però a livello politico si spiega la preferenza per gli eurobond, dicendo che non ci si può indebitare all’infinito, si trasmette al pubblico un messaggio fuorviante. I pasti gratis non esistono nemmeno nel mezzo di una pandemia. Quando si dice no al Mes (Meccanismo europeo di stabilità), perché vorrebbe dire indebitarsi, si lascia intendere che fare più deficit non lo sia. Il patto di stabilità è giustamente sospeso. L’Italia ha più margine per indebitarsi, ma a costi più alti, nonostante l’aiuto della Banca centrale europea.
Nell’intervista di ieri ai giornali italiani, il presidente francese Emmanuel Macron insiste sul fatto che ci troviamo di fronte a uno chocesogeno e simmetrico. Ma che purtroppo avrà costi diversi sui vari Paesi. Noi pagheremo il prezzo più alto. Alcuni Paesi del Nord ritengono che le conseguenze della pandemia saranno più contenute. Al premier olandese Mark Rutte, il più duro oppositore di un’azione comune dell’Unione Europea contro la crisi, Giuseppe Conte potrebbe inviare un piccolo documento. Pochi fogli. The missing profits of nations, «I profitti perduti dalle nazioni». Pubblicato dal National bureau of economic research di Cambridge MA. L’Italia perde ogni anno circa 20 miliardi di euro di imponibile sui profitti realizzati da multinazionali italiane con sedi in paradisi fiscali, di cui 17 in Paesi europei. Amsterdam è la preferita.
Ferruccio de Bortoli
[ CORRIERE DELLA SERA ]
Illustrazione di Doriano Solinas