mercoledì, 27 Novembre 2024

La fine di Morsi e la fragilità delle rivolte arabe

Massimo Campanini (UNIVERSITÀ DI NAPOLI L’ORIENTALE E TRENTO) ISPI

La morte di Mohammed Morsi, finora il primo e unico presidente della repubblica egiziano di estrazione civile, in sé rappresenta niente più che un fatto di  cronaca. Che Morsi sia stato stroncato da un malore (infarto?) è in sé credibile, dato che gli ultimi sei anni da lui trascorsi in prigione, in rigoroso isolamento, non devono essere stati piacevoli. La data di riferimento cui guardare retrospettivamente è il 3 luglio 2013, il giorno in cui l’esercito, guidato dall’attuale Capo di Stato, il generale Abdel Fattah al-Sisi, pose fine all’incerto esperimento governativo dei Fratelli Musulmani; anzi, pose fine alla “primavera” egiziana tout court e, simbolicamente, al moto di rivolta di tutto il mondo arabo.

Considerando il processo in retrospettiva, emergono alcuni dati che possono già essere considerati acquisiti dalla storia, al di là della cronaca. Le “rivoluzioni” o più appropriatamente rivolte del 2011-2013(inqilabàt non thawràt, almeno a mio avviso, a rischio di deludere coloro che vi avevano sinceramente partecipato buttando il cuore oltre l’ostacolo), sono fallite: basta gettare uno sguardo al desolato panorama del Medio Oriente, dalla Libia alla Siria, dallo Yemen a, appunto, l’Egitto (con l’importante eccezione tunisina, ricordiamolo). I Fratelli Musulmani, almeno in Egitto, erano stati protagonisti del tentativo di transizione dal regime di Mubarak a una prospettiva politica più aperta, ma hanno evidenziato difetti che ne hanno compromesso l’efficacia dell’azione politica: incertezza nei princìpi teorici (lo slogan al-Islam huwa al-hall, “l’Islam è la soluzione”, bandiera dell’islamismo politico “frerista”, si è rivelato desolatamente vuoto di contenuti);  incapacità di coagulare le forze non islamiste attorno a un progetto politico, soprattutto di riforma costituzionale, condiviso; incapacità di proporsi, gramscianamente, a forza egemonica di direzione intellettuale, morale e politica, della società; incapacità di affrontare i nodi di un’economia in crisi profonda.

D’altra parte, i militari hanno colto l’occasione di confermare e rafforzare, anzi, il loro ruolo esclusivo nella gestione dello stato. I militari, nella mia analisi, avevano accompagnato passo passo, con discrezione e abilità, l’evoluzione della “primavera” egiziana fin da quel febbraio 2011 che aveva visto il crollo di Mubarak e del suo sistema marcio di clientele, connivenze, corruttele e pseudo-democrazia repressiva. L’hanno accompagnata sia atteggiandosi a difensori della volontà popolare (chi non ricorda i carri armati coperti di ghirlande di fiori nelle strade del Cairo?), sia consentendo ai Fratelli Musulmani di vincere le elezioni parlamentari e presidenziali. Quando però i Fratelli Musulmani hanno preteso di impossessarsi sul serio della “rivoluzione”, l’esercito ha deciso che il tempo degli indugi era passato, e il golpe del 3 luglio 2013 ha raddrizzato la situazione. I cristiani copti sono stati tra i primi e diretti responsabili del ritorno all’autoritarismo e al controllo militar-poliziesco del paese: hanno firmato una cambiale in bianco ai militari pur di fermare a ogni costo gli islamisti. Questi ultimi, massacrati a Rabia al-Adhawiyya e nella successiva capillare repressione, hanno pagato ingenuità, approssimazione e rigidità di princìpi.

La responsabilità dell’Occidente e dell’opinione pubblica del cosiddetto mondo libero è altrettanto evidente: la stigmatizzazione, ideologica e aprioristica, dei Fratelli Musulmani come “terroristi” ha fatto il gioco di coloro che volevano che tutto cambiasse perché nulla cambiasse.

Le “primavere” arabe, e quella egiziana in particolare, possono insegnare qualcosa? Insegnano certamente che le società civili nei paesi arabi sono gracili; non immature, ma deboli. Insegnano che non vi è possibilità di condurre a buon fine una rivolta popolare, tanto meno una rivoluzione se non esistono condizioni geopolitiche internazionali che ne garantiscano il terreno propizio di affermazione (la presenza di al-Qaeda e di Daesh, così come i conflitti di potenza tra Stati Uniti e Russia, tra Arabia Saudita e Iran – senza dimenticare l’interesse di Israele a una permanente destabilizzazione dell’area – hanno ostacolato e non certo favorito i processi di cambiamento).

Insegnano – le primavere arabe e quella egiziana in particolare – che i progetti rivoluzionari hanno bisogno di una struttura partitica che li sostenga e diriga (il movimentismo e il ribellismo, per quanto eroici, non vanno da nessuna parte: lo comprenderanno in Algeria e Sudan?). Ma dovrebbero anche – a mio avviso soprattutto – insegnare che gli irrigidimenti ideologici, si tratti dello stato islamico (se mai questa ambigua etichetta voglia dire qualcosa)  ma anche della democrazia liberale occidentale (essenzializzata al di là di ogni contestualizzazione storica), non consentono la soluzione di problemi la cui complessità si accresce man mano si stringe il groviglio delle tensioni.  

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