(Questo post è scritto con Majella Kilkey del dipartimento di Sociological Studies dell’Università di Sheffield e Iryna Kushnir, dell’Institute of Education di Nottingham Trent University)
Rispetto al 2015, i numeri dell’immigrazione dal Mediterraneo verso i paesi dell’Unione Europea, sia tramite le rotte di terra, sia tramite quelle di mare, si sono ridotti drasticamente. Secondo i dati dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, nel 2019 ci sono stati finora 61.484 arrivi, di cui 49.690 via mare e 11.794 via terra. Per quanto si tratti di un numero importante di vite umane e di storie di sofferenza e difficoltà, rispetto al milione di arrivi del 2015, appare oggi un fenomeno su scala diversa. Tuttavia, nel discorso politico, nelle relazioni tra gli Stati membri dell’Unione Europea, e nella percezione del ruolo di quest’ultima nel contesto della gestione dell’immigrazione, gli effetti della crisi dei migranti hanno lasciato solchi profondi.
Quanto meno nel contesto italiano, quando si tratta di immigrazione, l’Europa ha perso credibilità. La percezione comune del ruolo della stessa in tale contesto si può riassumere in pochi aggettivi che riecheggiano negli articoli dei media e nel confronto politico: distante, divisa, inefficace, assente.
Questo post, nel riportare alcuni dei risultati di uno studio sugli effetti della crisi dei migranti lungo il corridoio balcanico per le traiettorie e priorità dell’integrazione europea, intende mettere in luce alcuni dei retroscena di tale comune percezione. Lo studio è stato portato avanti tramite un’analisi dei media in 16 Paesi europei e non, interviste con esponenti delle istituzioni europee e di organizzazioni del terzo settore a Bruxelles, in Germania e nel Regno Unito, e tramite l’esame di una selezione di documenti sulla politica europea in materia di immigrazione.
Il quesito era triplice: che cosa ha rivelato la crisi rispetto alle debolezze preesistenti del processo di integrazione, quali nuovi problemi ha portato per il processo di integrazione, e quali nuove traiettorie ha aperto per tale processo.
In particolare, questo post riflette su due aspetti emersi dallo studio in questione, che sono spesso trascurati o fraintesi nell’ambito del discorso mediatico e politico su Unione Europea e immigrazione. Il primo è che il termine “crisi”, che fosse crisi dei rifugiati, o dei migranti, o della gestione dei confini, è diventato un ombrello sotto cui si sono raccolte e confuse inquietudini e preoccupazioni di stampo diverso. Il secondo aspetto è che la crisi in questione ha portato la gestione dell’immigrazione dai margini al cuore del progetto di integrazione europea, alterando in tal modo in maniera significativa la fisionomia del progetto stesso.
In merito al primo aspetto, le interviste condotte nell’ambito del nostro progetto di ricerca suggeriscono che uno dei principali teatri di confusione sul discorso della crisi dei migranti è stato il Regno Unito. Negli stessi anni in cui in Europa continentale la preoccupazione era per i migranti attraverso il Mediterraneo, nel Regno Unito la preoccupazione era per i migranti dall’Europa continentale. Le due inquietudini sono state anche volutamente sovrapposte nella campagna politica che ha preceduto il referendum di giugno 2016 sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.
Si è parlato indistintamente di immigrazione umanitaria e immigrazione economica, di immigrazione dalla Siria e dall’Europa, lasciando trapelare la sensazione che i confini britannici fossero vulnerabili in pari misura a tutti questi flussi, e che tale vulnerabilità dipendesse in buona misura dall’appartenenza del Regno Unito all’Unione Europea.
Al di là degli effetti che questo può aver avuto per l’esito del referendum e per le sorti della Brexit, tale propensione a confondere aspetti diversi dell’immigrazione segnala una tendenza più ampia e che non caratterizza solo il Regno Unito. Quando si parla di immigrazione, i flussi, le regole, le responsabilità sono spesso sovrapposti nella percezione e nel discorso. Da un lato diversi aspetti dell’immigrazione, intra-europea e da paesi terzi, volontaria e forzata, economica e non, confluiscono nell’alimentare una generale inquietudine verso l’idea di un’apertura dei confini e una pericolosa tendenza ad abbracciare nazionalismo, protezionismo, e isolazionismo. Dall’altro, tali sovrapposizioni e confluenze si ripercuotono sul ruolo che viene attribuito all’Unione Europea in materia.
Il che conduce al secondo aspetto emerso dalla nostra ricerca, che riguarda più direttamente le ripercussioni della crisi dei migranti per il futuro dell’integrazione europea. La critica all’UE per la sua assenza in tale contesto tradisce un malinteso: che l’immigrazione sia sempre stata materia di competenza europea e responsabilità della Ue. Non è cosi.
La gestione dell’immigrazione dai Paesi terzi era originariamente del tutto estranea al progetto di integrazione. Ne entra a far parte alla fine degli anni ’90 quando gli Stati membri decidono di conferire una competenza in tal senso all’Europa con il Trattato di Amsterdam – l’Unione Europea, si ricordi, è un’organizzazione di poteri limitati e conferiti.
La gestione dell’immigrazione resta comunque una competenza marginale e complementare a quella degli Stati membri, e nel cui contesto l’Unione ha una serie di paletti al suo potere di azione. Alcuni di questi verranno rimossi con il Trattato di Lisbona entrato in vigore nel 2009. Tuttavia all’esordio della crisi dei migranti tra 2014 e 2015, il potere di agire in materia dell’Europa era ancora giovane e scarsamente testato.
L’Unione Europea non aveva mai considerato la gestione dell’immigrazione come una delle sue priorità o degli aspetti determinanti il suo ruolo nell’ordine internazionale. Le risposte dei nostri intervistati suggeriscono che, in tal senso, i postumi della crisi hanno portato un cambiamento radicale. D’un tratto, l’immigrazione passa dalla periferia al cuore del progetto di integrazione. La gestione della stessa diventa una sfida per la sopravvivenza dell’Unione, una missione di primaria importanza, e parte integrante dell’identità dell’Europa unita.
Tale cambiamento di prospettiva suggerisce una riflessione più generale sull’ethos e gli obiettivi del processo di integrazione. Si tratta di un progetto il cui perimetro è cambiato e cambierà nel tempo. E si tratta di un progetto che impara dal suo stesso svolgersi e confrontarsi con la realtà internazionale. Da questa capacità di adattarsi dipendono il suo potenziale e la sua resilienza. Dal perseguimento della pace e della cooperazione economica ai tempi di Robert Schuman, al progetto di unione politica degli anni ’90, alla contemporanea esigenza di gestire i confini comuni e riuscire a parlare con una voce sola con i Paesi d’origine.
Una lezione importante dunque della crisi dei migranti per l’Unione Europea è che l’integrazione è un processo di continuo apprendimento. Concepirlo come tale può aiutare tutti i suoi stakeholders, le istituzioni, gli Stati membri, i cittadini, a gestirlo con successo.
(Il post riflette alcuni dei risultati di uno studio svolto tra il 2016 e il 2019 nell’ambito del progetto Jean Monnet “MIGRATE” finanziato dalla Commissione Europea, e condotto congiuntamente da un consorzio di università e istituti di ricerca del Regno Unito, Germania, Austria, Serbia, Repubblica di Macedonia, Grecia, Ungheria e Turchia)