domenica, 24 Novembre 2024

LA NECESSITÀ DI FISSARE CONFINI CHE NON SIGILLANO

MAURO MAGATTI (CORRIERE DELLA SERA)

Società aperta o società chiusa? È questa la polarità attorno a cui si va ristrutturando il gioco delle democrazie contemporanee. Dopo gli anni della liberalizzazione, in cui tutto sembrava destinato ad aprirsi, siamo entrati in una fase in cui il movimento di fondo va nella direzione opposta. A cominciare da Trump per arrivare ai partiti populisti europei, le nuove destre predicano la chiusura delle frontiere come argine per contenere le conseguenze più negative di un’apertura indiscriminata.

Siamo talmente abituati a utilizzare un pensiero dualista (che contrappone bianco e nero, buoni e cattivi, destra e sinistra etc.) da rischiare ogni volta di mancare il punto. Così, in questa fase, prima di precipitarsi a condannare una tale reazione — arrivando a tacciarla di «fascismo» — occorre capirne le ragioni. Tanto più che la linea di divisione sociale passa tra i ceti medio-alti acculturati e i ceti medi e popolari in via di impoverimento (economico e culturale). Chi parla oggi di chiusura pensa alla possibilità di tornare a separare ciò che i processi della globalizzazione hanno integrato. Tale spinta — che nessuno si aspettava potesse diventare così forte — reagisce all’idea di una liberalizzazione che travolgeva ogni limite, ridando fiato a istanze sovraniste che, per fondarsi, devono forzare i toni dell’identità. I difensori della società aperta, dal canto loro, reagiscono a questa reazione insistendo sul pluralismo dei valori e delle idee e sulla centralità di una innovazione continua e in linea di principio senza limiti.

È rischiosa la polarizzazione nella quale si finisce quando si rimane prigionieri del gioco delle parti: società aperta non significa spalancata — senza limiti ed esposta a ogni specie di intemperie — e società chiusa non significa sigillata — immaginando di potersi isolare dal mondo. Il problema all’ordine del giorno — conseguente alla crisi del 2008 — è piuttosto come ridefinire i termini del rapporto dentro-fuori. Richard Sennet ci aiuta richiamando la distinzione utilizzata dai biologi tra parete e membrana cellulare: la prima trattiene tutto per quanto può e dà via quanto meno possibile; la seconda, invece, porosa e resistente, permette il fluire delle sostanze senza per questo perdere la propria struttura.

In un mondo complesso e in perenne movimento, per continuare a esistere occorre chiudere quel tanto che è necessario per essere veramente aperti. Contrariamente alla fase post bellica — quando le società nazionali costituivano mondi ben separati — oggi la chiusura di cui si ha bisogno consiste nella costruzione di confini che non sigillano, ma mettono in relazione una determinata comunità politica con il mondo intero. Il confine — scrive Cacciari — «è la linea lungo la quale due confini si toccano: cum-finis. Il confine distingue, accomunando; stabilisce una distinzione, determinando una ad-finitas. Fissato il finis […] “inesorabilmente” si determina un contatto».

Il confine non è mai soltanto limes (frontiera rigida), ma sempre anche limen(soglia). Nessun confine può, quindi, pretendere di eliminare «l’altro», di escluderlo, poiché lo implica. Il confine, limitando, mette in relazione. Qui troviamo il criterio per sfuggire alla contrapposizione manichea nella quale siamo oggi risucchiati. Apertura e chiusura definiscono un rapporto che va, ogni volta, faticosamente rinegoziato e riconquistato. Così, se riconosciamo che il tempo dell’espansione infinita è alle spalle, allora possiamo ammettere che per tornare a crescere occorrerà reimparare a «fare economia» (cioè a usare al meglio, cioè in modo sostenibile, le risorse disponibili: senza sprechi, privilegi, eccessi) e a «fare società» (cioè darsi regole, pratiche e fini comuni).

Ciò significa che, in economie aperte ed esposte alla concorrenza e ai processi globali (migrazioni, problemi ambientali, instabilità politica) la possibilità stessa di produrre ricchezza e integrazione si regge sulla capacità di addensamento e attivazione. In un mondo altamente tecnicizzato, culturalmente evoluto e politicamente instabile, il compito dell’azione politica è prima di tutto quello di stabilizzare ciò che è instabile e far permanere ciò che è mobile. In altre parole: oggi occorre «allearsi» — fissare, cioè, confini — non per chiudersi, ma per aprirsi e avere qualcosa da offrire al mondo, oltre che per attrarre ciò che si muove a livello planetario (intelligenze, capitali, persone). Allearsi, dunque, non in uno spirito residuale e reattivo, ma come opzione strategica e consapevole. Lavorando per creare le condizioni (di attivazione e protezione) che permettono di scambiare con cerchie più ampie, senza perdere consistenza interna.

Nella torsione degli equilibri democratici è questo il ruolo che la politica sta confusamente cercando: collocandosi in uno spazio che la sovrasta, la sovranità oggi può rifondarsi solo ritrovando la capacità di contribuire a creare le condizioni affinché cittadini e imprese possano realisticamente entrare in relazione con il mondo intero.

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