Verso un mondo più chiuso o più favorevole a scambi commerciali? Tanti gli accordi da definire. L’UE è ben posizionata. Attenzione ai contrasti USA-Cina.
Da parecchio tempo ci si interroga sul futuro della globalizzazione: i più pessimisti preconizzano che la contrapposizione “West vs the rest” (dove il “rest” fa evidentemente capo alla Cina) non farà che aumentare, anche a causa di tensioni geopolitiche, portando a un brusco rallentamento degli scambi commerciali.
I più ottimisti e fiduciosi nel funzionamento del sistema multilaterale (incardinato in un OMC che si trova però in una situazione di stallo prolungato) sostengono invece che i vantaggi del libero commercio, così come i costi che comporterebbe fare a meno delle relazioni economiche con Pechino, sarebbero talmente elevati da scoraggiare propositi di decoupling. Ma, allora, chi ha ragione?
Posto che fare previsioni accurate è molto difficile, è probabilmente sensato soffermarsi su ipotesi intermedie che sembrano anche supportate da quanto stiamo osservando. Ovvero, più che una riduzione del commercio e un ritorno al protezionismo o a una marcata regionalizzazione (il cosiddetto reshoring, altra parola usata e forse abusata), si andrà probabilmente verso una ridefinizione dei flussi commerciali: una nuova geografia degli scambi i cui contorni “politici” saranno tracciati dagli accordi preferenziali che sono stati da poco conclusi o che sono in via di negoziazione. Chi si trova in prima fila nel disegnare questi nuovi confini? E che forma potrà assumere la nuova mappa del commercio internazionale nel giro di qualche anno?
UE: al centro della rete di accordi
Se c’è un terreno in cui l’Unione Europea è leader, è quello degli accordi di libero scambio. Attualmente, l’UE detiene 41 Free Trade Agreements (FTAs) con 72 Paesi terzi, il che la mette al centro di una rete di scambi globali con un potenziale che ha ancora margini per essere sfruttato in pieno. È anche grazie a questo attivismo internazionale (e probabilmente non è un caso che una delle aree di maggior successo dell’UE sia quella in cui detiene competenza esclusiva rispetto agli Stati membri) che l’UE è riuscita ad ampliare il proprio accesso ai mercati globali consentendo alle sue principali economie (Germania e Italia in primis) di diventare delle potenze in tema di esportazioni.
E, alla luce di ciò, si comprende anche perché la Commissione europea stia procedendo con prudenza sul terreno della competizione con la Cina, varando una strategia per la sicurezza economica che volutamente evita di usare il termine “decoupling” per fare invece ricorso al più sfumato “derisking”. La via maestra a livello commerciale sembra infatti quella della diversificazione delle partnership anziché quella dell’innalzamento di barriere nei confronti dei rivali.
Ed è dunque notizia di poche settimane fa la conclusione di un nuovo FTA con la Nuova Zelanda che, nonostante non rappresenti un mercato in grado di spostare gli equilibri economici globali, è comunque un Paese ad alta vocazione agricola per la produzione di carni, prodotti caseari, frutta e ortaggi. Grazie a questo accordo, l’UE ha ottenuto che l’autenticità delle proprie merci nel settore agro-alimentare vengano protette dall’eventuale concorrenza sleale della controparte, ma soprattutto sono state inserite clausole estremamente innovative in termini di sostenibilità ambientale, con la possibilità per i contraenti di sospendere le condizioni preferenziali qualora il partner venga meno ai propri target di decarbonizzazione.
Sembra invece più problematico l’accordo con l’Australia: a un passo dall’essere concluso, in occasione dell’ultimo round negoziale dell’11 luglio scorso la fumata è stata ancora “grigia”. Canberra è infatti restia nel concedere piena parità di trattamento alle merci europee rispetto a quelle locali, anche se dall’altro lato vorrebbe guadagnare pieno accesso al mercato UE per esportare i propri prodotti agricoli dopo che le controversie bilaterali con la Cina nel 2020 hanno chiuso parzialmente uno sbocco commerciale fondamentale per l’Australia. Trovare un accordo è comunque fondamentale per l’UE nell’ottica di aumentare l’accesso a materie prime e minerali critici (soprattutto litio e cobalto), di cui l’Australia è tra i principali produttori.
Commodities di cui anche il Cile è particolarmente ricco e con cui è stato concluso un Accordo di Associazione a dicembre 2022, mentre ci sono ancora delle resistenze reciproche da risolvere per perfezionare l’FTA con il MERCOSUR, che potrebbe essere davvero un game changer per garantire all’UE una maggiore capacità di accesso a materie prime fondamentali per le transizioni digitale ed energetica, considerando la ricchezza di risorse naturali di Argentina e Brasile (infatti quest’ultimo, in termini di volumi, è già il primo fornitore di materie prime critiche della UE).
Il recente vertice UE-CELAC (che include tutti i Paesi latinoamericani) è servito a fare alcuni passi avanti da ambo le parti, quantomeno nel ribadire la volontà politica di chiudere l’accordo. Certo è che, se Bruxelles vuole centrare gli ambiziosi obiettivi fissati dal Critical and Raw Materials Act (ovvero essere autosufficiente per il 40% delle proprie forniture di queste materie prime entro il 2030), questi accordi andranno finalizzati in tempi rapidi.
USA: barriere anti-Cina per entrare nell’Indopacifico
Dall’altra parte dell’Atlantico, gli Stati Uniti stanno adottando una strategia che presenta delle evidenti differenze con quella europea. Innanzitutto, gli USA non sembrano puntare sul libero commercio almeno quanto lo sta facendo l’UE: gli FTAs siglati fino ad oggi da Washington con Paesi terzi sono solo 20, e uno solo di questi è un accordo plurilaterale (l’USMCA, ovvero la versione “aggiornata” del NAFTA con Canada e Messico). L’atteggiamento più prudente degli USA si evince anche dallo scarso sostegno dimostrato negli ultimi anni al WTO, senza sostanziali differenze tra l’amministrazione repubblicana e quella democratica, dato che l’organo di risoluzione delle controversie (il Trade Appellate Body) è ancora in una situazione di stallo a causa del prolungato veto di Washington contro il rinnovo dei membri di questo organismo.
Inoltre, di recente gli USA hanno fatto frequente ricorso a misure protezioniste, soprattutto nei confronti della Cina, in termini di dazi doganali (con un aumento pari a 350 miliardi di dollari), limitazioni dell’export e degli investimenti al fine di ostacolare lo sviluppo tecnologico di Pechino e tutelare la propria sicurezza nazionale. Lo scopo di Washington non è esclusivamente difensivo, ma è anche finalizzato a occupare un ruolo sempre più rilevante nella regione dell’Indo-Pacifico e in questo senso va letta la creazione dell’Indo Pacific Economic Framework(IPEF), lanciato nel 2022 con 12 Paesi della regione che tuttavia fino ad ora non ha ancora portato alla definizione di un accordo commerciale preferenziale.
A tal proposito, si potrebbe dire che gli USA stanno ancora “scontando” la decisione presa a suo tempo da Donald Trump di abbandonare l’accordo Trans-Pacific Partnership, che nel frattempo però è progredito (cambiando nome in Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership – CPTPP) arrivando persino ad accogliere tra i suoi membri il Regno Unito, che in nome della cosiddetta “Global Britain” sta perseguendo un’agenda commerciale ambiziosa.
Sembra dunque che l’obiettivo primario di Washington sia quello di gestire la competizione con la Cina limitandola e isolandola, invece che di promuovere una maggiore apertura commerciale.
La Cina e gli altri: l’espansione dei BRICS
C’è poi il cosiddetto “rest”, o “Global South”: un insieme di Paesi che, indipendentemente dalle varie definizioni, guardano in maniera crescente alla Cina come punto di riferimento per provare a definire un ordine economico alternativo, non solo a livello commerciale ma, ad esempio, anche a livello valutario. Una importante dimostrazione potrebbe arrivare in occasione del prossimo vertice BRICS, in programma in Sudafrica dal 22 al 24 agosto. Sono infatti più di 40 le economie emergenti che hanno fatto richiesta di essere ammesse in quello che sembrava essere solo un “club ristretto” a 5 Paesi, ma che oggi, a parità di potere d’acquisto, rappresentano il 31,7% del Pil mondiale, superando il G7.
I candidati all’ingresso sono molto eterogenei tra loro (si va dall’Argentina all’Iran passando per Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita) e dunque non è per nulla scontato che questa iniziativa riuscirà a creare un vero ordine economico alternativo, né tantomeno che si giunga a definire un trattato di libero scambio che coinvolga tutti questi Paesi. Sembra piuttosto che questo disegno sia funzionale alla Cina e alla sua volontà di approfondire le partnership economiche in tutto il mondo creando una sorta di fronte alternativo agli USA anche attraverso la definizione di accordi bilaterali per l’utilizzo del renminbi al posto del dollaro.
Verso un mondo più frammentato?
Non è detto che la nuova mappa degli scambi globali coincida con protezionismo, guerre commerciali e frammentazione economica. Sembra più realistico ipotizzare che la globalizzazione assumerà un’altra forma grazie alla definizione di nuovi accordi e la nascita di nuove alleanze. L’UE sembra (per una volta) in buona posizione in virtù del ruolo centrale di “broker” di accordi preferenziali ma sarà cruciale chiudere il più in fretta possibile i negoziati ancora sul tappeto (in particolare quello con il MERCOSUR). Un fattore potenzialmente rischioso potrebbe essere l’inasprirsi delle tensioni geopolitiche ed economiche tra Stati Uniti e Cina, ma la necessità di reperire materie prime e risorse naturali (la cui domanda non farà che aumentare nei prossimi anni) dovrebbe garantire che le “autostrade del commercio” resteranno in futuro aperte e percorribili, anche se sempre più trafficate e contese.
ISPI [Istituto per gli Studi di Politica Internazionale]