Anche se Trump e Xi Jinping si sono accordati sul congelamento dei dazi al G20 di Buenos Aires, la direttrice finanziaria della Huawei è stata arrestata nel quadro di un’inchiesta del dipartimento americano alla Giustizia sulle possibili violazioni delle sanzioni all’Iran. Anche se c’è un progresso su un fronte, c’è un nuovo punto di rottura su un altro. Nel frattempo, la politica estera americana, imperniata sullo slogan «America First», e l’ostinazione nell’avviare rappresaglie commerciali contro gli alleati statunitensi nella regione asiatica, proprio mentre il presidente Trump sembra cercare nuovi motivi di scontro con Pechino, lasciano progressivamente spazio a una Cina sempre più ambiziosa, che punta a estendere la sua influenza commerciale e politica.
L’approccio di Trump verso Pechino, volutamente ed esplicitamente aggressivo e polemico, suscita preoccupazioni in molti Paesi vicini della Cina. Giappone, Corea del Sud, Malesia e altri ancora osservano con inquietudine come la crescente potenza economica della Cina stia alterando gli equilibri di potere della regione, rendendo vulnerabili le nazioni limitrofe. Costoro hanno buoni motivi per augurarsi che Trump riesca a costringere la Cina ad aprire nuovi mercati ai prodotti esteri, a ridurre le sovvenzioni alle aziende e a smettere finalmente di imporre il trasferimento — o il furto — della proprietà intellettuale delle imprese straniere.
Purtroppo pare poco probabile che questi governi possano vedere in Trump un alleato affidabile. Al di là del problema dei dazi americani imposti ai loro prodotti, la decisione di Trump di abbandonare l’impegno dell’amministrazione Obama di entrare a far parte dell’alleanza transpacifica — un corposo accordo commerciale che sta andando avanti per la sua strada senza la partecipazione di Washington — e le sue esternazioni stravaganti sulle politiche commerciali americane, tutto sta a indicare che questi Paesi farebbero meglio a procedere con estrema cautela per quel che riguarda le intenzioni americane. Altro motivo di apprensione sono le indagini in corso sulla campagna presidenziale e sull’attuale amministrazione Trump, che si intensificheranno nel 2019, e la constatazione che fino a oggi non sono ancora state espresse con chiarezza le posizioni dei democratici sui futuri rapporti commerciali.
In tali circostanze, la Cina non metterà alcun freno ai suoi piani di espansione, e benché le sue strategie di investimento, oggi accentrate sulla realizzazione della Via della Seta (Belt Road Initiative), abbiano ripercussioni globali, Pechino resta decisamente focalizzata sull’egemonia cinese in Asia. Tra le finalità della Via della Seta vi è senz’altro quella di attirare le economie regionali in più stretto contatto con la Cina, rafforzando l’influenza strategica cinese all’interno di ciascun Paese. Singapore, Indonesia, Malesia, Vietnam, Pakistan, Thailandia, Laos e Myanmar hanno tutti ricevuto sostanziosi investimenti cinesi negli ultimi mesi, e la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina non ha fatto altro che stimolare la Cina a sviluppare nuovi mercati.
I leader cinesi sono ben consapevoli che questa espansione sta creando contraccolpi in Asia — come altrove — man mano che i politici e gli imprenditori dei Paesi confinanti vedono profilarsi con chiarezza le minacce sottese ai progetti di Pechino. Nei mesi scorsi, il primo ministro della Malesia, Mohammed Mahathir, ha ordinato di cancellare tre progetti cinesi di investimento, e ne ha sospeso un quarto, per timore di indebitare eccessivamente il suo Paese. Gli investimenti cinesi sono diventati inoltre oggetto di un acceso dibattito politico nelle prossime elezioni in Thailandia e in Indonesia, dove una forma di populismo islamista soffia sul fuoco del risentimento anticinese.
Di recente in Pakistan si sono viste manifestazioni molto più drammatiche del crescente rancore nei confronti della Cina. Il mese scorso, uomini armati hanno sferrato un attacco mortale contro il consolato cinese di Karachi. Motivo apparente erano gli investimenti cinesi in una regione del Pakistan rivendicata dai separatisti. La Cina è un investitore su vastissima scala nell’economia del Pakistan, in particolare da quando l’amministrazione Trump ha allentato i legami tradizionali con il governo pachistano. Tuttavia, già si addensano le inquietudini in un Pakistan pesantemente indebitato su quello che la Cina potrebbe reclamare, quando il Paese si ritroverà nell’impossibilità di restituire i prestiti cinesi. Chiamiamola pure la «diplomazia della trappola del debito» quella avviata dalla Cina, un grattacapo che oggi sempre più governi sono costretti ad affrontare.
Persino nelle Filippine, dove il presidente Rodrigo Duterte ha attivamente corteggiato gli investimenti cinesi per le infrastrutture, si avvertono i primi contraccolpi contro lo strapotere economico della Cina. Duterte ha preferito recedere dalle rivendicazioni del suo Paese nel Mar Cinese meridionale, un’area dove l’espansione militare cinese ha attirato l’attenzione internazionale, ottenendo finora poco in contraccambio. Di conseguenza, l’opposizione oggi lo accusa di aver svenduto gli interessi del Paese.
Eppure, malgrado i dubbi e i timori dei Paesi limitrofi, la crescente influenza cinese è una realtà tangibile e indiscutibile in Asia. Tutti questi Paesi hanno bisogno di mantenersi in buoni rapporti con Pechino per far crescere le loro economie, creare occupazione e conservare la loro stabilità politica, e dovranno gestire nel migliore dei modi tanto i rischi quanto le opportunità che scaturiscono dai loro rapporti con la Cina. Quale sarà il ruolo che gli Stati Uniti intendono svolgere in Asia è ancora oggi una domanda cruciale destinata a restare purtroppo senza risposta.
(traduzione di Rita Baldassarre)