mercoledì, 27 Novembre 2024

La scelta di Matteo Renzi e il rischio di instabilità

Antonio Polito (CORRIERE DELLA SERA)

Perché lo fai? Perché è la mia natura. Verrebbe da evocare lo scorpione della favola di Esopo per spiegare la scelta di Matteo Renzi, che subito dopo aver spinto il Pd al governo con i grillini, se ne va portandosi via due ministri, un sottosegretario e dai 30 ai 40 parlamentari. Non è infatti chiaro che cosa lo divida così tanto dal suo ex partito da averlo costretto ad andarsene. Non certo l’idiosincrasia per i Cinquestelle, visto che è stato lui a trascinare Zingaretti all’accordo con Grillo. Nè la separazione può essere motivata da uno scivolamento a sinistra del Pd, se Renzi stesso sostiene che a comandare lì è Franceschini, tutt’altro che un Che Guevara.

Però in politica più del «narcisismo» evocato da Grillo conta la volontà di potenza. Renzi sta provando a diventare il Ghino di Tacco di questa legislatura, per usare il soprannome che si diede Craxi quando tentò di infilarsi come terza forza nel predominio dei partiti maggiori. Fa spuntare dal nulla una nuova componente del governo, trasformandolo in un tricolore all’insaputa del premier; e l’obiettivo è poter dire la sua su tutti i dossier che contano. Tra questi ce ne sono di inconfessabili, come le nomine negli enti, ma anche di già dichiarati, come la partita della fusione tra Leonardo e Finmeccanica.

Il fatto è che Renzi non ha mai superato il trauma della sconfitta nel referendum del 2016. Non se ne è mai dato una spiegazione politica, e dunque la considera un’ingiustizia della storia, il frutto di un destino cinico e baro. Le sue indubbie doti di leader lo spingono a ritenere che deve essere un numero uno. E se non può esserlo più nel suo partito, allora se ne fa un altro. Il governo andrà avanti: la maggioranza resta identica dal punto di vista numerico. Ma è più instabile, perché i patti iniziali sono già cambiati. I Cinquestelle volevano fare un governo con il Pd ma senza Renzi e ora si ritrovano la Boschi al tavolo della maggioranza: fino a che punto potranno far finta di niente? E poi c’è da capire come il nuovo arrivato giocherà i suoi numeri in Parlamento. Si dice che proprio per questo Conte e Franceschini stiano già cercando di formare una zona-cuscinetto al Senato, un manipolo di volenterosi pronti a disinnescare eventuali ricatti.

Soprattutto resta da capire che cosa sarà del Pd. Colpito dalla maledizione di Tutankhamon della sinistra, che si scinde senza sosta fin dall’Ottocento, il Pd sembra un partito mai nato. Gli ultimi due segretari, Renzi e Bersani, l’hanno lasciato. Il primo segretario, Veltroni, ha lasciato la politica. Il fondatore, Prodi, ha da tempo spostato altrove la sua tenda. Dal punto di vista numerico lo scisma di Renzi non ne pregiudica il futuro, anzi; al Nazareno fanno notare che su 150 parlamentari se ne vanno in «Italia viva» intorno al 20%, molti meno dei presunti renziani. E i sondaggi dicono che un eventuale nuovo partito farebbe molta fatica nelle urne (e infatti Renzi annuncia che non intende presentarsi in nessuna competizione elettorale fino alla fine della legislatura, che spera duri fino al 2023).

Ma ciò non toglie che il colpo preso dal Pd è serio. Nato per unire culture progressiste diverse, le vede invece dividersi ulteriormente. Concepito per avere un’ambizione maggioritaria, si è ridotto a sperare in un ripristino del proporzionale puro per poter trovare alleanze. Ma tra scissione e proporzionale c’è un rapporto di causa-effetto. Goffredo Bettini, uno dei suoi teorici più sofisticati, ha giustificato l’addio di Renzi proprio con l’imminente riforma elettorale. Così il Parlamento sembra destinato a frantumarsi sempre più in un agglomerato di progetti leaderistici e di gruppi di potere, che si compongono e si scompongono un po’ come avveniva ai tempi di Depretis, l’inventore del trasformismo. I partiti, le opzioni ideali, le grandi scelte programmatiche impallidiscono, a vantaggio della pura manovra e della campagna elettorale perpetua. Aggravando così il già pesante dubbio dell’opinione pubblica sulla politica democratica e la sua credibilità.

Magari sarà proprio la scissione di Renzi a far scattare un allarme. Non è detto infatti che non induca a un ripensamento sulla legge elettorale. È chiaro che con il proporzionale il Pd non tiene, perché non è unito né da una solida cultura riformistica né da una leadership carismatica. Ma siccome il Pd, come tutti i partiti strutturati e presenti sul territorio, è essenziale per tenere in salute la democrazia, forse sarebbe meglio evitare che il Parlamento diventi una sorta di Temptation Island. Anche perché così i governi, come si è già visto e come rischiamo di vedere presto, finiscono per durare pochi mesi. Mentre il Paese, che assiste sgomento a questi scampoli dell’estate più pazza della politica italiana, è già con la testa all’autunno e ai suoi guai.