Mi è rimasto negli occhi, nella mente e nel cuore quel video struggente, che ti lascia senza fiato. Elena è una donna ancora bella, giovanile, lucidissima. Se non fosse stata lei a rivelarcelo, avremmo fatto fatica a credere che sia affetta da un male incurabile.
Elena ha scelto di farsi accompagnare dal suo Veneto fino in Svizzera per morire. E un uomo politico, Marco Cappato, si è assunto il compito. La morte di questa donna merita rispetto, attenzione, riflessione. La signora di Spinea è una persona forte, sicura di sé. Non piagnucola, non si lamenta, non recrimina, riesce a tenere a bada le emozioni. Elena ha deciso di porre fine alla sua vita prima che la malattia che l’ha colpita la trascini «all’inferno». Ha per sua figlia e suo marito parole di comprensione, di affetto, di riconoscenza. Il suo ultimo atto di amore nei loro confronti è stato quello di non farsi accompagnare a Basilea per evitare a entrambi problemi legali.
Ora Elena è morta. Non era in fase terminale, non dipendeva da nessuna macchina. Com’era prevedibile la sua decisione ha riacceso il dibattito sul delicato e spinoso tema del fine vita. Sarebbe, per tutti, penoso e disonesto ogni tentativo di strumentalizzare questa storia inquietante e dolorosa. Perché non ci dovrebbe essere nulla da strumentalizzare e tanto su cui riflettere e, se si crede in Dio, per cui pregare: le parole usate, il tono pacato della voce, la ferma convinzione di questa persona così dolce scuotono a fondo. Siamo o non siamo padroni della nostra vita? Abbiamo o no il diritto a scegliere come e quando mettere fine ai nostri giorni? C’è chi dice sì, e tira dritto. E chi, invece, è convinto che è meglio fermarsi e, con calma, indagare meglio nel mistero nel quale ognuno di noi è avvolto.
Lisbona, luglio 2022. Le strade del centro sono affollatissime. È sera, su un marciapiede, un uomo giace a terra. I pantaloni abbassati e bagnati di orina. Pare morto, ma è solamente ubriaco o drogato. È giovane, forse giovanissimo. Una marea umana gli passa accanto, lo vede, lo scansa, qualcuno, distrattamente, inciampa sul suo corpo. Chi è? Da dove viene? Sembra che non interessi a nessuno. Mi fermo. Non riesco a capire se a farmi più male è l’uomo steso a terra o il fiume di giovani che non lo degnano di uno sguardo.
Mi riguarda quell’uomo? Non lo conosco, non so chi sia né da dove venga. Ha scelto lui di ubriacarsi, di drogarsi, di sciupare la sua vita. Certo, ma tutto questo può bastare perché ci si disinteressi di lui? C’è chi dice di sì, chi dice di no. Ritorna la domanda: «Ma la “mia” vita è del tutto e solo mia? O, in qualche modo, appartiene anche a chi mi vuole bene, e perfino a chi nemmeno mi conosce?».
Giuseppina, mia cognata, sta combattendo contro il cancro. In “terra dei fuochi” non c’è famiglia che sia immune da questa sciagura. Negli anni scorsi abbiamo già accompagnato al camposanto Giovanni e Francuccio, i miei adorati fratelli, morti di cancro. Giuseppina, purtroppo, non sta nelle condizioni della signora Elena, ma molto peggio. Le sue giornate sono attraversate da momenti di sconforto e momenti di speranza. Tutti sappiamo che non potrà guarire, ma intanto viviamo la sua presenza, le teniamo compagnia, condividiamo le sue paure e impariamo a compiere ogni giorno.
Le ore più pesanti sono quelle in cui il dolore si fa insopportabile. Quando, invece, riusciamo a metterlo in fuga, Giuseppina ritorna a una sorta di normalità.Come Elena, Giuseppina, non vuole soffrire, e questo, in Campania, non sempre è possibile perché le cure palliative, anche in questa Regione, lasciano molto a desiderare.
Occorre investire di più sia nella ricerca scientifica sia nella costruzione di luoghi pronti ad accogliere i nostri cari – e magari noi stessi – perché percorrano, anche da malati, il loro ultimo tratto di strada con serenità e senza sentirsi un peso. Occorre che chi vive accanto a un malato grave abbia il coraggio di dirgli, nei momenti di sconforto in cui potrebbe anche chiedere di voler morire: mamma, papà, figlio mio, figlia mia, tu non puoi, non devi morire perché io ho tanto bisogno di te… Per poi, accarezzandogli la fronte col miglior sorriso di cui siamo capaci, aggiungere:«Te ne vuoi andare? Pensi solo a te? Ed io? Come farei senza di te? Tu sei la vita della mia vita, il respiro del mio respiro…».
Rimaniamo insieme. Fino a quando? Fino a quando Dio – o la vita – vorrà. Aiutiamoci. Prendiamoci per mano, non abbassiamo la guardia. Siamo fragili e deboli, abbiamo bisogno di aiuto. Il dolore fisico non è l’unico nemico che ci attanaglia. C’è il dolore psichico e quello sentimentale; quello esistenziale e quello familiare. Domandiamoci allora – e con grande serietà – che decisione potremmo mai prendere il giorno in cui, annichilita e umiliata da una fortissima delusione di amore che l’ha destabilizzata, la nostra ‘bambina’ appena maggiorenne, ci chiedesse di aiutarla a morire, perché, dopo quella pugnalata al cuore, proprio non ce la fa ad andare avanti in questo unico, bello e, per lei, in quel momento, pesante, cammino della vita?
Maurizio Patriciello
[ Avvenire ]