L’arco di instabilità che corre dal Marocco all’Iran continua a essere caratterizzato da innumerevoli crisi, con un coinvolgimento sempre più ampio di attori interni ed esterni. I focolai di conflitto sono inoltre circondati da contesti e aree in via di transizione che, in cerca di un nuovo equilibrio, difficilmente potranno dare un contributo alla stabilizzazione dell’area.
La crisi siriana rimane al centro delle dinamiche del Vicino Oriente con ricadute che vanno ben oltre i confini della regione. Il regime di Assad, dopo aver riconquistato le zone del sud della Siria occupate dai ribelli, si prepara all’offensiva per la riconquista di Idlib, ultima roccaforte fuori dal controllo di Damasco. Se l’accordo di metà settembre tra Mosca e Ankara ha rinviato l’offensiva, interrogativi permango sulla concreta possibilità di creare a Idlib una zona cuscinetto demilitarizzata in un mese. Nell’est del paese, invece, il regime di Assad e le forze curde stanno provando a raggiungere un accordo che potrebbe portare a una soluzione negoziale quanto meno per le regioni ora occupate dalle Ypg.
Poco distante, le tensioni tra israeliani e palestinesi hanno rischiato di portare a un’escalation militare. La tregua tra Hamas e Israele sembra reggere, ma le fratture interne al mondo palestinese rendono complicato un accordo di lungo periodo. Nel tentativo di fare pressione sui palestinesi e arrivare a quello che è stato definito l’“accordo del secolo”, l’amministrazione Trump ha deciso di tagliare i fondi a Unrwa e all’Autorità Palestinese, complicando ulteriormente il quadro.
Anche all’interno del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) perdura la crisi tra Qatar, da una parte, e Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto, dall’altra, senza che si intravedano prospettive concrete di distensione. Ciò ha un impatto sulla politica regionale di Riyadh, che è impegnata contemporaneamente su più fronti, del Qatar e delle altre monarchie del Golfo. Neanche in Yemen si intravedono possibilità per la composizione della crisi nel breve-medio termine, mentre il paese è diventato un insieme di feudi politico-militari costantemente in conflitto tra loro.
Nel Golfo, al di là delle monarchie arabe, cresce l’incertezza in Iran in seguito alla decisione statunitense di uscire dall’accordo sul nucleare (Jcpoa, Joint Comprehensive Plan of Action). Il timore principale è quello di un nuovo isolamento economico, che alimenta nel paese una crisi di sfiducia, tanto sul piano economico quanto a livello politico. Nonostante le difficoltà interne, l’Iran continua a perseguire la sua agenda regionale, rimanendo saldamente al fianco del regime di Damasco nella crisi siriana e sostenendo diversi gruppi di milizie, dal Libano all’Iraq. La terra dei due fiumi si avvia, tra innumerevoli difficoltà, verso una nuova fase politica dopo le elezioni parlamentari dello scorso maggio. Non essendo uscita dalle urne una chiara maggioranza parlamentare, i giochi politici nel paese rimangono aperti e restano soggetti sia a pressioni interne sia a influenze esterne.
In misura diversa, l’instabilità mediorientale investe anche due paesi, Giordania e Libano, dai fragili equilibri politici ed etno-settari. Mentre il regno hashemita è stato attraversato da proteste che hanno fatto ricordare le manifestazioni di piazza del 2011, il Libano rimane sull’orlo del baratro dal punto di vista economico-sociale. Per di più qui, le aspettative e gli interessi degli attori esterni rischiano di complicare ulteriormente il quadro.
Sul versante nordafricano, continua il processo di democratizzazione della Tunisia, che però è afflitta da numerose difficoltà economiche. Un altro paese in apparenza stabile, l’Algeria, è attraversato da proteste di piazza contro il carovita. Al contempo cresce l’incertezza sulla futura guida del paese, in particolare riguardo alla possibilità che l’attuale presidente Abdelaziz Bouteflika si ricandidi per un quinto mandato alle presidenziali del 2019.
In Egitto il presidente al-Sisi consolida la sua presa del potere dopo l’ottenimento di un nuovo mandato fino al 2022, senza che si registrino sostanziali cambiamenti negli indirizzi di politica interna ed estera. Rafforzamento del processo di sviluppo economico e inasprimento delle misure di sicurezza rimangono infatti i pilastri della sua azione, mentre si intensifica la stretta nei confronti di media liberi, di attivisti e di quelle porzioni di società civile rimaste ultime forme di opposizione al regime.
Cresce l’instabilità in Libia dove gli scontri delle scorse settimane nella capitale Tripoli testimoniano la precarietà degli equilibri sui quali si regge il Governo di accordo nazionale voluto dalle Nazioni Unite e guidato da Fayez Serraj.
Non da ultimo la Turchia, dove Erdoğan e il suo partito si sono confermati alla guida del paese per i prossimi cinque anni, cerca con grande fatica di contrastare la crisi valutaria che rischia di trasformarsi in una crisi economica di ancor più ampie dimensioni. Tutto ciò mentre il paese sta portando avanti un processo di adattamento interno al nuovo sistema istituzionale. Le elezioni di giugno hanno infatti reso effettiva la riforma costituzionale che ha segnato la trasformazione della Turchia in una repubblica presidenziale.