Capire il motivo del declino storico che ci impoverisce tutti e trovare il modo in cui iniziativa pubblica e privata interagiscano in modo virtuoso per invertirlo, dovrebbe essere il compito numero uno, l’urgenza di una agenda nazionale.
Assumiamo, irrealisticamente, uno scenario benevolo: una coalizione stabile e riformista nella prossima legislatura. Quali dovrebbero essere le priorità di questo ipotetico governo? Oltre all’ordinaria amministrazione e al rispetto della stabilità dei conti pubblici, un governo capace di mettere in campo iniziative con un orizzonte di medio e lungo periodo dovrebbe affrontare il problema numero uno dell’Italia: la produttività. Dalla metà degli anni Novanta — da ben più di vent’anni — la crescita della produttività in Italia è rallentata non solo rispetto al passato, ma anche rispetto agli altri Paesi europei. Dalla produttività dipende la crescita di lungo periodo e quindi il reddito presente e futuro dei cittadini, la capacità di ridurre il debito pubblico, la competitività internazionale. Capire il motivo di questo declino storico che ci impoverisce tutti e trovare il modo in cui iniziativa pubblica e privata interagiscano in modo virtuoso per invertirlo, dovrebbe essere il compito numero uno, l’urgenza di una agenda nazionale. Molte cose già si sanno. Ne elenco alcune. Il rallentamento della produttività è legato alla scarsa capacità di innovazione tecnologica ed ha toccato sia i servizi sia il settore manifatturiero, ma non tutte le imprese. Il sistema produttivo è infatti sempre più polarizzato con alcune — poche — imprese innovative e competitive ed altre — molte — inefficienti.
Il successo è legato alla dimensione e alla internazionalizzazione, caratteristiche correlate. Sappiamo anche che l’Italia è indietro nella formazione del capitale umano, con una scolarizzazione bassa se comparata ad altri Paesi europei, alto abbandono scolastico e bassa graduatoria nei test internazionali di abilità. Altra caratteristica italiana è una scarsa efficienza delle pratiche manageriali, fenomeno che spesso si lega alla pratica diffusa di selezionamento dei manager all’interno della famiglia invece che attraverso processi competitivi basati su pool più ampi di talenti. Questi non sono fenomeni indipendenti tra loro, ma concause. Investire nella propria formazione non ha molto senso se la domanda di lavoro delle nostre imprese non premia la specializzazione e l’istruzione alta. Chi è ambizioso e può farlo, parte all’estero sia per studiare sia per trovare lavoro più interessante e meglio retribuito. Un ingegnere laureato in una ottima università come il Politecnico di Torino, che non ha nulla da invidiare a molti atenei europei, guadagna, al suo primo impiego, un terzo del suo collega tedesco o inglese. Il problema quindi non è solo l’offerta educativa, ma anche la domanda, la capacità, cioè, delle nostre imprese di valorizzare quelle competenze necessarie all’innovazione. Questo crea una spirale negativa in cui l’Italia si concentra sempre più su attività a basso valore aggiunto.
Ci sono tante altre cose che non vanno: la giustizia, l’inefficienza dell’amministrazione pubblica, il fisco e la lista dei lamenti può allungarsi ancora, ma è chiaro che nessuna di queste singole cause può spiegare da sola il declino degli ultimi venticinque anni e soprattutto il perché sia iniziato proprio negli anni Novanta. In quegli anni sono cominciate ovunque nelle economie avanzate grandi processi di cambiamento produttivo legati alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Queste ultime premiano la flessibilità organizzativa e necessitano di investimenti in beni immateriali come le invenzioni, i diritti, i brevetti. Chi non è saltato su questo carro è stato ulteriormente penalizzato dalla competizione internazionale in anni in cui la globalizzazione ha accelerato il suo corso. In Europa il mercato unico ha dato enorme opportunità aprendo una grande area di libero scambio ma ha anche accelerato la competizione e premiato i più forti.
Un governo ha due modi di incidere. Primo, investendo sulla qualità del sistema educativo, grande assente nei programmi elettorali. Secondo, formulando un programma comprensivo che favorisca l’adozione delle nuove tecnologie basato su incentivi, azione regolamentare ed infrastrutture. Su questo il governo uscente si è cominciato a muovere con la cosiddetta «industria 4.0». Bisogna continuare a monitorare e perfezionare queste iniziative. Molto di più si può fare anche a livello europeo completando il mercato unico e alimentando un programma di investimenti.
Ma non scordiamoci che le resistenze sono profonde e anche in parte giustificate. Gli anni novanta hanno portato a grandi trasformazioni, ma ciò che oggi sta accadendo nei Paesi più innovativi con l’automazione e la robotica è potenzialmente devastante. In Germania, come negli Stati Uniti, il risultato di un processo tecnologico che sostituisce macchine a lavoro, combinato con profitti quasi monopolistici delle imprese alla frontiera e all’indebolimento oggettivo della capacità contrattuale di lavoratori sempre più fragili, ha portato ad un declino tendenziale della quota del Pil che va al lavoro. Questa è l’altra faccia del successo. In Italia, avviene l’inverso. Poiché la quota del lavoro è aumentata. Tuttavia ciò non è dovuto al fatto che i lavoratori siano pagati meglio che in Germania, ma da salari che crescono piú della produttivitá. Poiché quest’ultima è bassa, i salari sono anch’essi bassi e cosí anche i profitti.
Questo governo stabile e lungimirante della mia fantasia dovrebbe quindi anche riflettere su come proteggere chi perde dal progresso. Questo è il tema che dominerà la politica dei Paesi avanzati nei prossimi decenni. L’Italia – i politici e chi li elegge – deve decidere come affrontare le grandi trasformazioni tecnologiche che stanno cambiando il mondo. Rinunciare al progresso non è la risposta, perché questo rende tutti più poveri.