Da David Ricardo a John Maynard Keynes, passando per Karl Marx: in passato l’impatto dell’innovazione tecnologica sul lavoro è riuscito a preoccupare economisti di ogni scuola. Quanto ai lavoratori, oggi per fortuna non si arriva alla distruzione delle macchine (come accadeva duecento anni fa in Gran Bretagna con il telaio meccanico) ma l’angoscia di un futuro dominato da globalizzazione e automazione domina l’opinione pubblica, come dimostra l’ascesa di leader e partiti populisti.
Ma l’innovazione è davvero così mostruosa come la dipingono? Probabilmente no, se non altro perché la storia insegna che le ricadute del progresso tecnologico sono molto difficili da immaginare. Illuminante al riguardo è un corposo studio del McKinsey Global Institute (”Jobs lost, jobs gained: workforce transitions in a time of automation”), che esamina l’innovazione tecnologica del passato per cercare indizi su quello che accadrà nel prossimo futuro.
Intanto va smentito il luogo comune che l’automazione distrugga posti di lavoro. Le macchine permettono ai lavoratori di produrre di più, aumentando la produttività e (gradualmente) gli stipendi, e abbassando il prezzo di beni e servizi. Tutto questo crea una nuova domanda di beni e servizi che aumenta la richiesta di lavoro. Con il risultato di fare crescere l’occupazione. Non è solo teoria: guardiamo qualche dato.
Negli Stati Uniti il numero di lavoratori è quasi triplicato tra il 1960 e il 2017, passando da 65 milioni a 152 milioni secondo i dati dell’Us Bureau of Labor Statistics. Certo, le centraliniste telefoniche del 1960 hanno perso il lavoro per “colpa” dell’automazione, ma qualcuno avrebbe mai immaginato quanti altri posti sarebbero stati creati nel 2017 grazie alla nascita dello smartphone?
Il bancomat per esempio, inventato cinquant’anni fa, non ha portato come qualcuno temeva all’estinzione degli impiegati di banca: entrambi (sportelli automatici e fisici) sono cresciuti di numero tra il 1991 e il 2007, con le filiali che si moltiplicavano. Con la crisi del 2008 e l’avvento dell’e-banking le cose sono cambiate, gli sportelli fisici si stanno riducendo di numero ma non faranno la fine delle centraliniste.
Vediamo che cos’è accaduto con il personal computer, al quale “Jobs lost, jobs gained” dedica un intrigante approfondimento. Secondo le stime degli analisti di McKinsey, l’avvento del Pc ha portato dal 1980 alla creazione netta di 15,8 milioni di posti di lavoro, pari a circa il 10% dell’occupazione complessiva negli Stati Uniti. Questa cifra rappresenta in pratica la differenza tra i 19,3 milioni di posti creati in ambito informatico dal 1980 e la perdita di 3,5 milioni di posti dovuta all’avvento del “personal”.
A fare le spese dell’arrivo del Pc sono stati soprattutto dattilografe, tipografi e segretarie. Ma a fronte della riduzione del numero di queste figure professionali, ne sono nate milioni di completamente nuove: dai produttori di hardware (semiconduttori inclusi) a quelli di software, dagli sviluppatori di app ai data scientist, dai customer manager agli operatori dell’e-commerce, fino banalmente ai commessi dei negozi di Pc, ma anche agli analisti quantitativi del mondo finanziario. Senza l’avvento del personal computer non sarebbe stata possibile una creazione così possente di nuove professioni e posti di lavoro, tra l’altro in buona parte caratterizzati da stipendi più elevati della media.
La morale? L’innovazione tecnologica, spesso, non è poi così brutta come qualcuno la dipinge. Ma soprattutto mette a dura prova la capacità di fare previsioni, perché cambia completamente le carte in tavola. Anzi, fa saltare il banco stesso, creando dinamiche di business inedite.