Tasse e contributi fanno più che raddoppiare il costo del lavoro per l’impresa. E sono lo «schiacciasassi» di salari e stipendi netti. Alla fine, quando si va in profondità nello scandaglio dei problemi reali dell’economia italiana, e ci si occupa del lavoro, di come crearlo, sostenerlo e premiarlo nelle aziende che producono, si arriva inevitabilmente a uno scoglio. Anzi, a un cuneo. Che resta un tema forte, anche dopo la crisi di governo. Il cuneo fiscale e contributivo è tornato di grande ed effimera attualità nell’incontro che il premier Conte ha avuto con le parti sociali la scorsa settimana. Sua la promessa formale di ridurlo.
Peccato che poche ore dopo, il vicepremier Salvini, in un faccia a faccia con le stesse organizzazioni (salvo qualche significativa defezione come quella del segretario della Cgil, Landini), abbia avanzato altre proposte insistendo soprattutto sulla sua ipotetica e immaginifica flat tax. La crisi di governo ha reso beffardamente inutili quegli incontri (e Salvini lo sapeva già) ma i problemi purtroppo restano. Anzi, si aggravano.
L’Italia è terra di evasori corteggiati e condonati dalla politica. Questa l’amara realtà. Le tasse le pagano soprattutto dipendenti e pensionati. Una ventina di milioni di contribuenti versa già al Fisco meno del mitico 15 per cento della cosiddetta flat tax. Forse il modo migliore di arrecare un vantaggio tangibile al maggior numero di lavoratori e aziende è quello di agire sul cuneo contributivo, intervenendo sul sistema delle detrazioni. Un parallelo ridisegno delle aliquote Irpef, più che una flat tax, con una attenzione particolare ai ceti medi bassi, avrebbe poi anche il non disprezzabile effetto di aiutare la parte di popolazione più colpita dalla crisi e dal blocco dell’ascensore sociale. Certo una manovra di questo tipo fa meno effetto e ha un dividendo politico inferiore. Che cos’è innanzitutto il cuneo? Si divide in due parti.
Quella a carico del dipendente, in particolare l’imposta sul reddito personale, la quota di contribuzione sociale. Cioè la differenza tra retribuzione netta e lorda. E la parte di pertinenza del datore di lavoro, esempio contributi sociali dell’impresa, oneri fiscali. Lo scarto tra retribuzione lorda e costo del lavoro. I dati Ocse Taxing Waves 2018 sono impietosi per l’Italia perché ha un cuneo fiscale e contributivo tra i più elevati al mondo. Per esempio, la retribuzione media annua lorda (31 mila euro) di un lavoratore single è il 47,9 per cento del costo del lavoro, contro il 36,1 dei Paesi economicamente più avanzati, e il 42,1 dell’Eurozona. I tentativi di riduzione del peso del cuneo fiscale e contributivo sono stati numerosi negli ultimi anni. Tagli annunciati con grande enfasi poi ridimensionati dalle ristrettezze di bilancio. Misure adottate con l’ambizione di cogliere più obiettivi insieme (ed è forse stato un difetto ricorrente vista l’esiguità delle risorse).
Ovvero: aumentare i consumi delle famiglie, sostenere l’occupazione dei giovani, delle donne, nel Mezzogiorno, ridurre il costo del lavoro per le imprese. Il governo Prodi intervenne soprattutto con le leggi Finanziarie del 2007 e del 2008 (passaggio da deduzioni a detrazioni Irpef, aumento degli assegni familiari, prime esclusioni dalla base imponibile Irpef). Il 60 per cento del taglio (tre punti percentuali del cuneo) andò a favore delle imprese; il 40 per cento (due punti) a vantaggio dei lavoratori. In teoria erano 468 euro l’anno. I rischi L’Unione europea contestò l’esclusione dal beneficio di banche e assicurazioni e utility. Il governo poi si corresse. Vi fu una certa delusione per il beneficio reale eroso in parte dall’aumento della tassazione locale.
Questo è un rischio che si correrebbe anche oggi. L’allora viceministro dell’Economia, Vincenzo Visco, scrisse su Repubblica il 20 ottobre del 2006 che non si poteva intervenire riducendo i contributi sociali, anche per i prevedibili effetti sull’Inps e che comunque il governo aveva fatto più di quanto promesso in campagna elettorale. «Se vi fossero state più risorse disponibili — scrisse Visco — si sarebbe potuto evitare anche il modesto aggravio sui redditi più elevati. Purtroppo la situazione è quella che è». Altri interventi vennero fatti, in seguito, dal governo Monti con il «Salva Italia» (per esempio la riduzione della base imponibile Ires grazie alla deduzione dal reddito d’impresa dell’Irap pagata sul costo del lavoro dipendente) e dall’esecutivo Letta, con la legge di Stabilità del 2014 (diminuzione per le imprese dei contributi Inail).
Il governo Renzi, oltre agli 80 euro, il Jobs Act, gli sgravi contributivi per i nuovi assunti, realizzò la deduzione totale (e soprattutto strutturale) del costo del lavoro a tempo indeterminato dall’imponibile Irap. In seguito, Gentiloni introdusse sgravi contributivi annuali alle imprese del Sud che assumevano con contratto a «tutele crescenti». Tutti i governi hanno affrontato, con misure diverse, il tema della decontribuzione o detassazione del welfare contrattuale, dei premi di produttività. Già Berlusconi aveva a suo tempo detassato gli straordinari. Dunque, non si è fatto poco, da parte di maggioranze di diverso colore, per tentare di ridurre il cuneo fiscale e contributivo. Si è speso molto con effetti tutti da valutare, su consumi, occupazione e investimenti. Il divario nel peso del cuneo fiscale con altri Paesi Ocse è addirittura aumentato. Le misure Che cosa si potrebbe fare oggi? A differenza del 2006 non vi sono grandi e insuperabili differenze di vedute tra le parti sociali. Anzi, sia il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, sia quello di Confcommercio Carlo Sangalli, con Rete Imprese, appaiono disponibili a riservare i benefici in gran parte, se non del tutto, a favore dei lavoratori. Confartigianato è più per la flat tax. Un eventuale meccanismo di imposta negativa potrebbe venire incontro alle necessità dei cosiddetti «incapienti».
Quei quattro milioni di lavoratori dipendenti esclusi, perché sotto gli 8 mila euro l’anno, dal bonus Renzi. Misura che avrebbe anche l’effetto di ridurre il disincentivo a lavorare implicito nel reddito di cittadinanza. Ma aumentare le detrazioni per il lavoro dipendente (che già ammontano a 42 miliardi l’anno) non è facile, visto che si dovrebbe, secondo le migliori intenzioni, ridurre le spese fiscali per finanziare il disinnesco delle clausole di salvaguardia sull’Iva. E in più per completare l’operazione sarebbe necessario un ridisegno delle aliquote Irpef, soprattutto la riduzione di quella dal 27 al 23 per cento. Un intervento di significativa riduzione del cuneo fiscale costerebbe intorno ai 10 miliardi. Poco più del costo annuale del bonus degli 80 euro che la Lega vorrebbe trasformare da spesa in decontribuzione. Operazione non facile, con il rischio di scontentarne troppi. Ora, però, è tutto sospeso. Se ne tornerà a parlare. Forse in un’altra legislatura.