mercoledì, 27 Novembre 2024

La via interrotta della riconciliazione

Goffredo Buccini [ CORRIERE DELLA SERA ]

Solo in Italia, tra le grandi democrazie occidentali, una destra repubblicana ed esplicitamente antifascista può apparire un ossimoro. Meglio: solo in questa Italia, così slabbrata nei valori della nostra convivenza. Il caso della senatrice a vita Liliana Segre ne è certo la manifestazione più vistosa: una sopravvissuta ad Auschwitz costretta a girare con la scorta, e destinataria di una solidarietà che soltanto per carità di patria definiremmo blanda da parte della destra qui da noi egemone, ha attirato sul nostro Paese un’ondata di sdegno internazionale. Ma segnala, purtroppo, un più grave cedimento collettivo delle coscienze civili. Uno smottamento visibile soprattutto dentro un’area politica e di opinione che pure s’era messa in marcia con coraggio, negli anni Novanta del secolo scorso, per superare infine il guado assegnatole dalla storia.

È vero, la traversata era assai lunga e irta di scogli aguzzi. Non abbiamo avuto un eroe della lotta contro Hitler del calibro di Winston Churchill. Né un generale indomito che guidasse le truppe di liberazione dopo aver intessuto dall’esilio i fili della Resistenza come Charles de Gaulle. Il fantasma della scelta aventiniana ha perseguitato la nostra destra liberale ben oltre la caduta del fascismo, riducendola nella prima Italia repubblicana a testimonianza nobile ma poco incisiva e consegnando il vessillo della Resistenza italiana a un partito che, sia pure nella sua assoluta originalità, ripeteva allora la propria ragione sociale da un altro totalitarismo, addirittura ostile alle nostre alleanze internazionali. Le cause profonde di un liberalismo debole affondano nell’origine della nostra vicenda unitaria e in buona parte la precedono, attengono al timbro flebile della nostra borghesia, al persistente arroccamento feudale dei latifondisti al Sud, al plebeismo dei ceti più fragili e a motivi che la storiografia ha lungamente investigato e che hanno congiurato nel consegnare la destra all’avventurismo demagogico poi inveratosi appieno nel dramma del Ventennio.

In un bell’articolo su queste colonne, Antonio Macaluso ha da poco ricordato il travaglio, assai più recente, della destra «postfascista» italiana nello strapparsi dalle viscere quelle origini illiberali, la nascita del partito nuovo di Gianfranco Fini che voleva «imparare ad aprirsi al centro». Si trattò di un percorso di crescita, del quale sarebbe ingiusto non attribuire a Silvio Berlusconi meriti da istintivo mallevadore. Una traiettoria di revisione storica e ideologica, che condusse infine al viaggio del leader di Alleanza nazionale in Israele, al riconoscimento del fascismo quale «male assoluto», a un dialogo sempre più fertile con eredi del vecchio Pci come Luciano Violante ed esponenti del miglior laicismo come Carlo Azeglio Ciampi, nel tentativo di costruire finalmente un’Italia dai valori condivisi.

Il fallimento non solo politico di Fini, il declino di Berlusconi e soprattutto la crisi economica che, incrociata a quella migratoria, ha spaventato le classi più disagiate del Paese facendole regredire verso una nuova proletarizzazione inattesa e dentro una dimensione di nostalgia del passato ben descritta da Zygmunt Bauman nel suo «Retrotopia», hanno mandato in archivio (per ora) il sogno di quella destra repubblicana e laica (che non poteva risolvere se stessa nel trasversalismo cattolico della vecchia Dc o nel trasformismo dei suoi esangui eredi nella Seconda repubblica).

I recenti rigurgiti di intolleranza, ormai esplicitamente rivendicati nei comportamenti pubblici in una misura impensabile fino a dieci anni or sono, non si esauriscono affatto nel caso Segre (la comunità ebraica ricorda peraltro che tutti i suoi vertici sono costretti a vivere sotto protezione). Pur senza voler rivangare retroterra e affiliazioni del razzista Luca Traini di Macerata, le cronache quotidiane ci consegnano ogni giorno esempi di quanto sia pericoloso, nelle menti più deboli e nei quadri politici più sgangherati, un segnale di «tana libera tutti» sul repertorio mussoliniano codificato tra le righe di dichiarazioni ambigue e antiche parole d’ordine provenienti dalla leadership attuale della destra, così lontana dall’utopia della rivoluzione liberale del primo Berlusconi e dalla svolta di Fini.

Non si tratta soltanto del recupero di un generico moderatismo, la politica non è bon ton (con buona pace di chi tenta di derubricare in «politicamente corretto» ogni tentativo di civilizzare il discorso pubblico). Si tratta di attingere ai valori storici della destra europea ed europeista, garantista nel diritto, liberale in economia, rigorosa nella gestione dell’accoglienza senza tuttavia concedere un millimetro alla xenofobia e al razzismo. Non basta un’intervista rassicurante di Matteo Salvini sull’Europa e sull’euro per rovesciare un percorso di euroscetticismo e di avvicinamento alle democrature dell’Est europeo, specie se si tengono ai vertici di commissioni parlamentari teorici dell’Italexit e dei minibond.

Finché si liquida ogni 25 aprile come un «derby tra fascisti e antifascisti» si mostra solo di voler scantonare dall’argomento come uno studente poco preparato. Senza capire di star recando offesa tanto a chi visse quel giorno lontano del 1945 come una festa quanto a chi lo visse come un lutto, e soprattutto danno a un Paese che, oggi persino più di vent’anni fa, avrebbe bisogno di una destra davvero devota alla Costituzione per riprendere il percorso interrotto della riconciliazione nazionale.


Goffredo Buccini
[ CORRIERE DELLA SERA ]