Tra le ossa della megafauna del Pleistocene, mammut lanosi, alci colossali e bisonti, che affiorano dal sito archeologico di Broken Mammouth, in Alaska, insieme alle pietre appuntite usate dagli antichi Sapiens per cacciarla e scuoiarla, potrebbe passare facilmente inosservato un piccolo oggetto acuminato e forato, ricavato anche questo da un osso.
Si tratta di un ago per cucire, uno strumento essenziale quanto un’ascia per sopravvivere nel clima rigido dell’ultima era glaciale. I gruppi di umani che vivevano allora in Beringia, 15 mila anni fa, un ponte terrestre tra l’Asia e l’America settentrionale, avevano bisogno di cucire vestiti aderenti, pantaloni, casacche, fatti con le pelli delle prede, per proteggersi dai venti che spazzavano le steppe.
Forse sono stati i primi a scoprire e raggiungere l’America attraverso questo ponte, poi sommerso, su quello che oggi è lo stretto di Bering e a inoltrarsi a Sud lungo un corridoio libero dai ghiacci che coprivano buona parte del continente. La piccola industria litica di aghi e microlame, rinvenuta tra Siberia, Alaska e Canada, fino all’odierno Midwest americano, era il kit di viaggio e sopravvivenza essenziale per gli esseri umani. Qualche millennio più tardi, dall’altra parte del mondo e in un clima diverso, nella mezzaluna fertile che va dalle coste del Mediterraneo orientale al Golfo Persico, la confezione degli indumenti, secondo Ian Gilligan, professore di archeologia all’Università di Sydney, sarebbe stata centrale nella rivoluzione agricola del Neolitico che innescherà le prime civiltà della storia.
Anche se gli aghi più antichi finora ritrovati – nella Russia meridionale e nella grotta di Denisova in Siberia – risalgono a 40 mila e 50 mila anni fa, Gilligan, pioniere di un’archeologia del vestire che indaga le origini e le influenze del guardaroba sull’evoluzione della specie umana, sospetta che l’abitudine a coprirsi risalga a cicli glaciali precedenti e agli ominidi antenati dei Sapiens. I vestiti sono deperibili e non resistono al passaggio delle ere, ma ci sono sistemi d’indagine indiretti. Grazie alla bioarcheologia sappiamo che il pidocchio dei vestiti si è evoluto da quello dei capelli tra i 70 mila e i 170 mila anni fa.
“Ci sono strumenti litici che paiono destinati a scuoiare che si trovano in depositi archeologici risalenti a un milione di anni”, scrive Gilligan. La necessità di coprirsi durante le ere fredde è poi diventata un elemento culturale. Qui Gilligan si appresta a un salto concettuale che apre una visione inaspettata sulla nascita e diffusione delle civiltà: il punto critico di passaggio tra le orde di cacciatori e raccoglitori e i gruppi stanziali di agricoltori e allevatori, la trasformazione dei villaggi in proto-città e la differenziazione dei ruoli sociali.
La tesi prevalente, fino a una ventina di anni fa, ipotizzava la domesticazione delle prime piante in un’area del Levante, tra Israele e Giordania, a partire da 11 mila anni prima di Cristo. Da lì ci sarebbe stata un’espansione a raggiera in Asia, sulle rive del Mediterraneo e nell’Europa continentale. L’allevamento sarebbe partito 1500 anni più tardi. Oggi, invece, la genesi dell’agricoltura è stata retrodatata al 13 mila a.C. e il processo sarebbe stato lento e pulviscolare lungo il tracciato della Mezzaluna Fertile, un periodo di 6 mila anni in cui le comunità umane hanno imparato a coltivare cereali, come farro e orzo, e legumi.
Tra le prime piante domestiche si trova però anche il lino, da cui si ricava una fibra tessile traspirante, adatta al clima caldo dell’Olocene. Secondo gli studi più recenti, l’allevamento di ovini e caprini sarebbe stato contemporaneo della neonata agricoltura anziché seguirla. E qui si innesta la tesi di Gilligan, che con il suo libro “Climate, Clothing and agriculure in Prehistory”, edito dalla Cambridge University Press (Clima, vestiti e agricoltura nella preistoria), ribalta il tavolo sulle origini della civiltà. Non sarebbe stata la necessità alimentare a spingere gli uomini della Mezzaluna Fertile a sviluppare l’agricoltura e l’allevamento, ma il bisogno di un guardaroba più adatto al nuovo clima. “La transizione all’agricoltura è stata un punto di svolta nel rapporto tra l’umanità e la natura, con una profonda alterazione dell’ambiente che ha portato al sorgere delle città e della civiltà. Il mio sorprendente suggerimento è che ci sia stata una connessione tra la rivoluzione tessile e quella agricola”, ragiona il ricercatore australiano. Che trova i motivi della seconda nella prima.
Gli umani del primo Neolitico avevano cominciato a modificare l’ambiente attraverso la gestione di specie selvatiche, prima di una vera e propria domesticazione delle piante. Ma le fonti di sussistenza di quelle comunità erano miste, il loro fabbisogno alimentare si basava in gran parte sulla selvaggina dell’Olocene. Ancora intorno all’8000 a.C., sull’alto corso dell’Eufrate, a Nevali Cori, una delle prime proto-città, costruita probabilmente dalle stesse genti che edificarono il vicino complesso di templi a Gobekli Tepe, il surplus alimentare, dimostrato dalla presenza di grandi magazzini, derivava soprattutto dalla caccia, mentre i raccolti costituivano una percentuale inferiore. Pure, proprio da Nevali Cori, vengono i primi esempi di grano einkorn domestico.
È probabile che la coltivazione del lino, apprezzato anche per i semi oleosi, sia andata al passo con quella dei vegetali commestibili: le più antiche fibre di tessuto di lino, anche se selvatico, vengono da una caverna della Georgia e risalgono a 30 mila anni fa. Gli umani del Neolitico sapevano dunque ricavare fibre da questa pianta. Gilligan allarga poi l’indagine ai quattro punti cardinali, in Perù e Papua Nuova Guinea, dove l’agricoltura è nata più tardi e in modo indipendente. Proprio sugli altopiani della Nuova Guinea la coltivazione delle prime piante di banana, dai frutti commestibili ma non particolarmente appetibili per il numero di semi, sembra abbia avuto come fine principale la produzione di fibre tessili.
Ma gli umani del Neolitico non potevano semplicemente buttar via le pellicce e girare in perizoma nel clima caldo-umido dell’Olocene? Il punto – sostiene Gilligan – è che, durante le ere fredde, gli abiti erano diventati un fattore culturale. Antichissimi pesi per telaio si trovano nel sito di Cayonu, non lontano Nevali Cori. Siamo alle prime scintille della storia. Nel poema sumero di Inanna e Damuzi viene descritto il processo per ottenere le fibre dalla pianta di lino. Più tardi, nel Sannio del VII secolo prima di Cristo, i pesi per telaio, incisi e decorati, venivano portati come offerte votive nei templi. E lo stesso telaio in molte culture, da quella greca a quella Maya, era un simbolo della creazione dell’Universo. Così la tesi del ricercatore apre uno scenario inedito. La spinta alla rivoluzione agricola non sarebbe stata di natura pratica, ma culturale ed estetica.
Non tutte le spiegazioni di Gilligan, tuttavia, sono convincenti. Per esempio, quando trova nella produzione di lana la ragione per cui l’allevamento di pecore e capre precede quello dei bovini, dimentica che un gregge era più facile da gestire per piccole comunità rispetto a una mandria. I nostri antenati erano sperimentatori. Provarono ad allevare anche gazzelle, ma lasciarono perdere per l’impossibilità di addomesticarle. Quando la rivoluzione agricola era in corso, i neolitici sbarcarono a Cipro, portando una sorta di arca di Noè: non solo semi e animali domestici, ma volpi e cervi, un’intera nicchia ecologica. Semplicemente, portavano con sé il mondo che conoscevano. Tutto avveniva in modo fluido. E le soluzioni si trovavano strada facendo.
Di sicuro, dalla rivoluzione agricola i fili dei tessuti sono intrecciati con quelli della storia. Dalla Via della Seta, la grande arteria commerciale – per terra e mare – del mondo antico, alla lana che finanzia il Rinascimento italiano. Se i telai meccanici diedero il “là” alla prima rivoluzione industriale, le schede perforate del telaio jacquard dell’inizio del 1800 sono il primo passo verso i computer. La stessa globalizzazione ha preso il via dai round del WTO sull’esportazione dell’industria tessile cinese. Per un’ironia delle ere il remoto riscaldamento del Pianeta che determinò la fine del mondo glaciale e l’inizio della rivoluzione agricola e tessile avrebbe portato millenni dopo al riscaldamento globale antropico che rischia di soffocare il mondo. Mai sottovalutare un vestito.
FABIO SINDICI
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