Le forze politiche che ci governano stanno sottoponendo le istituzioni democratiche a una dura prova. Nel Paese, le alleanze sono ad assetto variabile. La Lega è unita a Forza Italia in periferia, ma al centro i due partiti sono opposti l’uno all’altro. Anche per questo la partecipazione politica attiva non supera l’8 per cento e quella elettorale, che registrava all’inizio della storia repubblicana il 90 per cento dei votanti, e si era poi attestata intorno al 70 per cento, nelle ultime elezioni regionali sta intorno al 50 per cento. Il Paese sembra rassegnato: il conflitto tra aspettative popolari crescenti e diminuzione dell’offerta politica, la confusione delle lingue, l’incertezza della guida politica, il continuo travalicare i propri compiti da parte dei titolari di funzioni pubbliche, producono frustrazione.
Nel Parlamento, vi sono ricorrenti motivi di contesa tra i due alleati, prova del fatto che il «contratto per il governo del cambiamento», peraltro lungo meno di un terzo di quello tedesco, non regge. L’illusione degli alleati di governo di raccogliere consensi con la loro «single- issue politics» si è rivelata fallimentare, una volta arrivati al governo. Il M5S è costretto a ricordare alla Lega che il peso reciproco in Parlamento è opposto a quello delle due forze nel Paese.
L’ultimo oggetto del contendere è l’autonomia differenziata, un tema sul quale i due partner sono divisi sia sul merito sia sul metodo.Sul merito perché la Lega propone, il M5S si oppone; sul metodo perché la prima ritiene che il futuro disegno di legge non debba essere emendabile, il secondo vuole che il Parlamento possa esprimersi con modificazioni.
Il maggiore partigiano dell’autonomia differenziata, il ministro dell’Interno, sostiene che questa è «richiesta di buona amministrazione e di spesa trasparente», così bollando implicitamente gli uffici di cui è a capo di malamministrazione e di opacità. Intanto, nessuna delle due forze politiche sembra capire che la differenziazione tra le Regioni è questione nazionale, non può risolversi in intese a due (governo – singola Regione), richiede un accordo, una pre-intesa anche con le altre Regioni.
Mentre ogni giorno si aggiunge un motivo di contenzioso nella maggioranza parlamentare, nelle assemblee elettive è assente il gioco tra maggioranza e opposizione (un buon contributo in questo senso è dato anche dai partiti che dovrebbero proporre alternative all’attuale governo). La nostra storia repubblicana ci aveva abituato a governi deboli e a governi transeunti, non a governi — come quello in carica — inesistenti. A Palazzo Chigi si ratificano frettolosamente compromessi raggiunti altrove tra i due «azionisti». Ma neanche questi compromessi bastano ad eliminare le frizioni.
Nei giorni scorsi, il presidente del Consiglio dei ministri ha dichiarato che farà «correre» la costruzione di infrastrutture e uno dei due vice presidenti ha detto di aver contribuito con una sua proposta. Intanto, però, il ministro titolare delle Infrastrutture ha dichiarato che non vi sono opere pubbliche bloccate. L’itinerante ministro dell’Interno (ma è solo ministro dell’Interno o ministro di tutto?), fa dichiarazioni ottimistiche: tuttavia, i provvedimenti «sblocca–cantieri», promessi dal primo giorno, non si vedono.
Mentre non c’è tema sul quale non vi sia disaccordo, l’accordo si raggiunge sempre quando si tratta di ascoltare le più varie corporazioni e spartire i posti di sottogoverno. L’approvazione delle norme sulla apertura domenicale dei negozi è stata rinviata «per capire che cosa ne pensano le associazioni di categoria». Inconsapevole del fatto che la Banca d’Italia è una autorità indipendente e che la sua autonomia è garantita anche a livello europeo, il governo non nomina un componente del suo direttorio, colpevole di aver espresso in sede parlamentare e nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche, una opinione non gradita (così il governo esercita una indebita pressione sulla Banca d’Italia e manda un messaggio a tutti i poteri che la legge dichiara indipendenti). Nomina a man bassa, invece, nei più vari organismi, dalle Fs all’Anas, all’Anpal, sia quando ne ha il potere, sia quando il potere se lo prende invitando i titolari a farsi da parte, giungendo all’estremo della rimozione per legge.
La pessima amministrazione della città di Roma fa scuola, e per seguirla si rispolverano cattivi usi delle istituzioni, come quello di riciclare nei gabinetti ministeriali parlamentari dello stesso partito non rieletti. I ministri si sentono gli unti del Signore. «Se c’è qualcuno a cui non va bene, si tolga la toga, si presenti alle elezioni»; «può un ministro fare ciò che ha promesso agli elettori o deve decidere qualcun altro?» sono le frasi pronunciate a ogni manifestazione di dissenso dei giudici, per difendere «una sfera di esclusiva prerogativa dell’attività di governo», come se Montesquieu, nel disegnare nel 1748 la separazione dei poteri, non avesse scritto che un sistema di governo moderato, per evitare l’assolutismo, richiede che «il potere impedisca il potere».
In conclusione, la democrazia non ha fatto passi avanti, da quando si invoca il popolo ad ogni piè sospinto; anzi, sta facendo passi indietro. C’è un declino delle società intermedie, insofferenza o intolleranza per organismi indipendenti e per il dissenso, poca consultazione, scarsa trasparenza dei processi di decisione. A questo si aggiunge che, dopo tanto inneggiare alla beata incompetenza, questa è ormai al governo. Avrà ragione Di Battista, che ha dichiarato in televisione, il 20 gennaio scorso: «La democrazia rappresentativa è già in crisi; un giorno la vedremo come qualcosa di obsoleto, come ora la monarchia assoluta»?