domenica, 24 Novembre 2024

L’ARRESTO DI PUIDGEMONT E LE FERITE CHE SI RIAPRONO

FRANCO CARDINI (IL MATTINO)

È stato appena cinque mesi fa, poco più poco meno: eppure ormai sembra un secolo. Intanto sono successe tante, troppe cose: dall’America alla Russia alla Siria. Noi, ammettiamolo, abbiamo la memoria corta. Il 27 ottobre del 2017 il presidente catalano Puigdemont proclamò l’indipendenza della Catalogna dal regno di Spagna: un progetto che, se fosse andato avanti, avrebbe cambiato il volto dell’Europa. Per la penisola iberica, della quale la regione con capoluogo Barcellona è la punta di diamante della produzione e della ricchezza, il colpo sarebbe stato durissimo: e le conseguenze, oltre che la Spagna, avrebbero riguardato anche l’economia del Portogallo, del Midi francese, dell’Italia, del Maghreb: insomma di tutto il bacino occidentale del Mediterraneo. Certo, avrebbero potuto anche aprirsi nuove prospettive: Puigdemont, in un discorso che faceva di tutto per apparire conciliante e rassicurante, aveva assicurato che la Catalogna stava uscendo dalla Spagna proprio per restare meglio in Europa.

Ma non tutti i catalani erano con lui: autonomisti certo, forse in massima parte: indipendentisti però non proprio, e scissionisti meno che mai. La Catalogna è legata a doppio filo, da almeno un millennio, a un’altra regione, l’Aragona, dove si parla castigliano; e, se è vero che è la regione più ricca della Spagna, è non meno vero che lo è anche grazie al lavoro di tanti spagnoli che l’emigrazione interna ha portato nei suoi opulenti confini dalle lontane aree povere e depresse come la Mancha, l’Estremadura, l’Andalusia. È vero che la Spagna non è unitaria come la pretendeva il regime franchista: è una nazione fatta di regioni che sono esse stesse nazioni, ciascuno con la loro lingua-madre.

Vi si parla non solo castigliano e catalano, ma anche basco-navarrese (un idioma dalle misteriose origini, affine addirittura al georgiano) e gallego, che in realtà è un dialetto portoghese. La sua arme araldica di stato associa il leone del León al castello di Castiglia alle strisce rosso-oro catalane alle catene asturiane al melograno andaluso. È abituata alle guerre e alle risse: conflitti tra cristiani e moros (i musulmani, così chiamati per le loro origini mauritane, cioè africane); quindi insurrezioni dei fueros, le circoscrizioni comunitarie; poi lotte contro gli invasori francesi di Napoleone; e ancora guerre nell’Ottocento tra monarchici e repubblicani, tra monarchici assolutisti e monarchici liberali; e infine la terribile guerra civile del 1936-39 che fu quasi una guerra di religione e una guerra di classe.

Eppure, anche al prezzo di quasi quattro decenni di dittatura (che comunque l’aveva tenuta fuori dalla seconda guerra mondiale), gli spagnoli avevano trovato, anzi si erano conquistati, concordia e relativa prosperità sotto una monarchia costituzionale e in un regime di alternanza politica tra conservatori e progressisti che solo negli ultimi anni aveva mostrato segni di crisi. Certo, la crisi socioeconomica della fine del primo decennio del nostro secolo non le ha giovato: da qui l’incrinarsi di un rapporto di fiducia e di solidarietà che aveva negli ultimi anni aperto la porta quasi a un processo di «balcanizzazione»: come la Croazia negli Anni ottanta-Novanta del secolo scorso nel confronto del resto della Yugoslavia, la Catalogna degli ultimi anni aveva cominciato a mostra malumore nei confronti del resto della Spagna, che i catalani accusavano di vivere in gran parte sulle loro spalle.

Diciamo la verità: il Settentrione d’Italia ha spesso espresso una simile opinione nei confronti del Meridione. È una malattia diffusa in tutta l’Europa mediterranea, con squilibri che dipendono ora dal «peso» dell’ambiente, delle tradizioni e della storia, ora da precise scelte sociopolitiche, ora da infrastrutture produttive e da investimenti.

Alla pretesa d’indipendenza dei catalani guidati da Puigdemont, molti furono gli stessi catalani che risposero inalberando con orgoglio il vessillo rosso-oro della nazione spagnola e proclamando di non volersene staccare. Il governo di Madrid rispose allora con durezza agli indipendentisti e al loro capo: per qualche lunga giornata restammo col fiato sospeso temendo un nuovo 1936, un’altra guerra civile. Poi tutto si risolse: ma Puigdemont, incriminato per ribellione – un reato per il quale in Spagna, dove in passato di ribellioni ce ne sono state fin troppe, si può esser condannati fino a 30 anni di galera – riparò in Belgio, mentre il governo spagnolo chiedeva un euromandato di estradizione.

Da allora il leader catalano non ha cessato di far politica. Ora, rientrando in Belgio dove abita da un viaggio in Finlandia, è stato fermato tra Danimarca e Germania: il governo spagnolo ha rinnovato la richiesta di euromandato in modo da poterlo processare ed eventualmente condannare.

Niente da eccepire sulla legittimità giuridica della pretesa di Madrid. Molti si chiedono tuttavia se sia stata politicamente opportuna una pretesa che le autorità le quali custodiscono attualmente l’uomo politico in stato di fermo non potrebbero mai respingere senza creare un incidente diplomatico con il regno di Spagna; mentre, se egli fosse ricondotto in patria, la sua stessa presenza e l’apertura del processo avvierebbero probabilmente una nuova stagione di proteste e di rivendicazioni da parte degli indipendentisti catalani ai quali potrebbero unirsi anche molti autonomisti moderati. Dal piccolo, tranquillo Belgio dove tanti sono i suoi compatrioti catalani e in genere spagnoli, il leader ribelle era una presenza alternativa tutto sommato di peso modesto; una volta rientrato in Spagna, e magari spedito in carcere, rischierebbe di diventare una bandiera. Chissà se sarebbe un buon affare.

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