Quasi un italiano su due afferma di soffrire di malesseri psicologici per motivi legati al proprio lavoro, mentre negli Stati Uniti imperversa il fenomeno delle “Grandi dimissioni”, con 4,3 milioni di professionisti che hanno abbandonato il proprio impiego nel solo mese di agosto, un numero che arriva addirittura a 20 milioni, se si parte da aprile. Fenomeni analoghi accadono in Germania e nel Regno Unito.
Nel mondo riemerso dalla pandemia sempre più lavoratori si interrogano sul ruolo nel proprio impiego e nella società che li circonda. E così fanno Paolo Iacci, consulente di direzione e docente di Gestione delle risorse umane all’Università Statale di Milano e il filosofo, accademico e psicoanalista Umberto Galimberti, nel Dialogo sul lavoro e la felicità (Bocconi Editore–Egea, 128 pagine, 14 euro), di cui pubblichiamo un capitolo per gentile concessione dell’editore.
Paolo Iacci
Nell’attuale “società liquida” il lavoro sta oggettivamente assumendo una valenza diversa rispetto al passato: non più un mero strumento di sostentamento economico o riscatto sociale in un mondo ben strutturato e capace di sostenere l’uomo in tutti i passaggi della vita, quanto uno dei pochi punti di tenuta di un legame sociale che è andato allentandosi nel corso di poche generazioni. Malgrado questo, nel sentire comune il lavoro sempre meno viene collegato alla felicità possibile. La felicità sembra possa essere possibile dopo il lavoro, malgrado il lavoro e non anche grazie al lavoro. Nei limiti del possibile, negli spazi che la ferrea logica della tecnica ancora ci lascia, credo che dovremmo cercare di “erotizzare” il lavoro, rendendolo desiderabile e non solo causa di fatica e luogo di tensioni.
Umberto Galimberti
Ancora una volta torniamo a Platone, padre della cultura occidentale, che definisce l’amore “follia”. La più eccelsa, dice Platone, la più divina. Non dobbiamo dimenticare che Platone descrive il pensiero umano secondo una struttura molto precisa, basata su principi razionali e categorie incontrovertibili, come per esempio il nesso tra causa ed effetto. La ragione fornisce le regole affinché gli individui possano intendersi, possano prevedere i comportamenti e la previsione dei comportamenti funziona se tutti gli individui si riconoscono nelle stesse regole.
Nell’alveo della rigida struttura della ragione non nasce niente dal punto di vista creativo ed erotico, al punto che Platone arriva a sostenere che la follia oltrepassa persino le regole matematiche, quindi l’apice della ragione umana. E aggiunge anche che i doni più grandi vengono dalla follia, naturalmente concessa per dono divino e ancora: “La follia dal dio proveniente è assai più bella dell’umana ragione”. Oppure ancora, per citare un altro esempio, dice che le sacerdotesse di Delfi e di Dodona fecero un gran bene alla Grecia quando “dismaniavano”, quando perdevano il senno, mentre non erano di alcuna utilità quando sapevano ragionare. Come mai dice questo? Perché amore è follia. «Gli amanti che trascorrono la vita insieme non sanno cosa vogliono l’uno dall’altro» – qui la ragione è completamente fuori gioco. Parafrasando Platone, aggiungiamo che non è certo per i piaceri carnali che gli amanti amano stare così tanto tempo assieme; evidentemente hanno cose da dire che non riescono a esprimere secondo i canoni di un linguaggio razionale, perciò parlano in modo enigmatico e buio. Ecco che anche il fallimento del linguaggio razionale rappresenta un’ulteriore categoria erotica.
Allora che cos’è questo benedetto eros? È follia. Ora: noi viviamo, oggi, nel mondo della tecnica. Come abbiamo detto, la tecnica non è la tecnologia degli oggetti che tutti noi utilizziamo. La tecnica è la forma di razionalità più alta raggiunta nella storia dall’uomo e consiste nel raggiungere il massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi. Questa regola funziona anche nel mercato economico, sebbene questo sia comunque un ambito abitato da una passione, cioè dall’amore per il denaro, mentre la tecnica non contempla nessuna passione umana. La tecnica non promuove un senso, non ci darà alcuna chance di salvezza, non redime, non dice la verità: la tecnica funziona. E il fulcro del suo funzionamento – ossia la regola per cui occorre raggiungere il massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi – è diventato globale.
Se questa forma di razionalità, astratta e univoca, non solo vive nell’azienda ma diventa la forma con cui noi pensiamo e per cui noi ragioniamo, allora la situazione diventa molto pericolosa, perché l’uomo è condannato a uscire dalla storia, essendo costituito anche da elementi di irrazionalità. Questi aspetti dell’esistenza umana, per la tecnica, sono tutti “inciampi”. E allora, in una condizione di questo genere, come è possibile per l’uomo salvarsi se la parte irrazionale viene eliminata dalla parte razionale in quella modalità molto severa, molto rigorosa, che consiste nell’effettuare esclusivamente le azioni descritte, prescritte dall’apparato, a costo di perdere il posto di lavoro se non si agisce secondo questi dettami?Prendiamo per esempio un impiegato di banca che riceve dal suo capo area l’ordine di vendere mille derivati “spazzatura” al mese; potrà avere degli scrupoli di coscienza ma sarà pur sempre consapevole che se non esegue l’ordine del capo area perderà il suo posto di lavoro. Allora dobbiamo stare molto attenti a questo scenario, perché se diventa la forma con cui tutti noi pensiamo, il rischio è quello di ridursi a non capire più che cosa è bello, che cosa è vero, che cosa è giusto, che cosa è santo; capiremo solo che cosa è utile. Ma un’utilità che rimanda a un’altra utilità in un processo infinito, non dà nessun senso alla nostra vita. Non potrà mai essere oggetto di desiderio e mezzo per raggiungere la felicità.
PAOLO IACCI E UMBERTO GALIMBERTI
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