Lo scorso 13 marzo – venerdì 13, guarda caso – mio marito stava guidando su un’autostrada polacca. Quando la radio ha annunciato che il governo avrebbe chiuso i confini entro ventiquattr’ore, ha accostato e mi ha chiamata. Pochi minuti dopo ho comprato un biglietto da Londra a Varsavia. Non vivo tutto l’anno in Polonia, ma mio marito è polacco e l’unica casa che possiedo si trova nelle campagne polacche.
Volevo andare a casa mia. La mattina del giorno dopo l’aeroporto di Heathrow era spettrale, quasi completamente deserto fatta eccezione per i passeggeri del volo per Varsavia, carico di persone che cercavano di rientrare nel loro paese con uno degli ultimi voli disponibili. Durante il check-in gli agenti impedivano l’imbarco a tutti passeggeri sprovvisti di passaporto polacco (io ne ho uno) o di certificati di residenza. A un certo punto qualcuno ha capito che le nuove regole sarebbero entrate in vigore solo a mezzanotte, e così ho assistito a una conversazione tra un assistente di volo e due passeggeri non polacchi: “Si rende conto che forse non riuscirà a uscire dal paese e resterà a Varsavia per molto tempo…”.
Nella stessa giornata abbiamo chiamato nostro figlio, iscritto al primo anno di università negli Stati Uniti. Gli abbiamo chiesto di andare immediatamente in aeroporto. Dopo la chiusura dell’università aveva in programma di trascorrere del tempo con amici e parenti. E invece, con appena mezz’ora di preavviso, ha dovuto prendere un volo per Londra e poi uno degli ultimi collegamenti con Berlino. Quando è atterrato in Europa, il 15 marzo, la Polonia aveva già chiuso i confini a tutti i trasporti pubblici. Così ha preso un treno da Berlino per Francoforte sull’Oder, una città al confine con la Polonia. Da lì ha attraversato la frontiera a piedi trascinando il suo bagaglio, come se fosse in un film di spionaggio sulla guerra fredda. Ha visto blocchi stradali, soldati armati, uomini che rilevavano la temperatura indossando tute protettive. Mio marito l’ha caricato in auto una volta superati i controlli.
Non si può chiudere tutto subito
La Polonia non è stata né il primo né l’ultimo paese europeo a chiudere i confini. Al momento almeno dieci governi hanno interrotto o limitato la possibilità di attraversare le frontiere. L’area Schengen, la zona di libera circolazione dell’Unione europea, è ormai inaccessibile a chi non possiede un passaporto comunitario. Eppure le prove scientifiche a sostegno di questa radicale chiusura dei confini sono piuttosto deboli. Amy Pope, che era nel Consiglio per la sicurezza nazionale statunitense nel 2014, durante l’emergenza ebola, mi ha raccontato che l’amministrazione Obama aveva valutato la possibilità di chiudere i confini nazionali alle persone provenienti dall’Africa occidentale, ma “gli scienziati avevano fortemente sconsigliato questa misura, sostenendo che avrebbe peggiorato l’epidemia”.
La chiusura delle frontiere senza una pianificazione adeguata può rallentare il movimento di equipaggiamenti ed esperti o creare raggruppamenti di persone infette negli aeroporti e in altri punti di controllo. Il blocco, inoltre, alimenta l’illusione di un intervento risoluto delle autorità senza però cambiare la realtà sul campo. A gennaio la decisione di Donald Trump di interrompere i collegamenti aerei con la Cina ha convinto le autorità statunitensi di aver fermato il Covid-19. Si sbagliavano.
Nessuno di questi provvedimenti estremi è servito a fermare la diffusione del virus in Polonia
Nel caso della Polonia la decisione repentina e apparentemente improvvisata di chiudere le frontiere ha scatenato il caos. Al momento molti cittadini polacchi sono bloccati all’estero e il governo è stato costretto a organizzare voli charter per riportarli a casa. Migliaia di ucraini, bielorussi e cittadini dei paesi baltici – tra cui camionisti e turisti che cercavano di tornare a casa – sono rimasti in fila al confine polacco per giorni (usando i campi come gabinetto) perché gli agenti della polizia di frontiera impedivano il passaggio a tutti i non polacchi. La Croce rossa tedesca ha distribuito cibo, bevande e coperte.
Nessuno di questi provvedimenti estremi è servito a fermare la diffusione del virus in Polonia. Il contagio era già cominciato alcune settimane prima, e continua ancora oggi. Ma nonostante il caos, o forse proprio grazie al caos, la grande maggioranza della popolazione è favorevole alla chiusura delle frontiere, perché ha la sensazione che lo stato stia facendo qualcosa. E questo ci da un’idea di cosa ci riserva il futuro.
Rassegnarsi alla perdita della libertà
Non c’è niente di nuovo nell’improvviso entusiasmo per un intervento aggressivo del governo durante una crisi sanitaria. Nel corso della storia le pandemie hanno regolarmente provocato un’espansione dei poteri dello stato. Nel 1348, mentre la peste nera devastava l’Europa, le autorità di Venezia chiusero il porto cittadino alle imbarcazioni provenienti dalle zone più colpite dalla malattia, costringendo i viaggiatori a un isolamento di trenta giorni, poi diventati quaranta (da questo episodio deriva il termine quarantena). Un paio di secoli dopo William Cecil, primo ministro della regina Elisabetta I, decise di combattere la peste con una legge che permetteva alle autorità di rinchiudere i malati in casa per sei settimane. Qualche anno dopo, nel 1604, il Plague act rese illegale qualsiasi critica nei confronti di questo e altri provvedimenti.
La paura ha sempre spinto le persone a rispettare le regole. D’altronde in un momento in cui la popolazione è terrorizzata dalla morte, è inevitabile che tenda ad accettare provvedimenti che ritiene salvifici, a torto o a ragione. Anche se questo significa perdere la propria libertà. Questo tipo di misure ha avuto grande successo in passato. I liberali, i libertari, i democratici e gli amanti della libertà di ogni specie farebbero meglio a rassegnarsi. Sarà così anche questa volta.
In alcuni paesi europei sta giù succedendo. L’Italia è in totale isolamento: tutte le attività commerciali e produttive sono ferme, a eccezione di quelle ritenute indispensabili; i blocchi stradali impediscono i movimenti superflui; i parchi pubblici sono chiusi; la polizia italiana ha già multato decine di migliaia di persone che si trovavano fuori dalle loro abitazioni senza un valido motivo. A Parigi è stato imposto un isolamento altrettanto severo: nella capitale francese non è possibile uscire di casa senza riempire un modulo, e centomila agenti di polizia hanno ricevuto l’incarico di assicurarsi che nessuno infranga le regole. In un solo giorno la polizia francese ha emesso quattromila multe per circolazione ingiustificata.
Sistemi d’allarme democratico disattivati
Secondo alcuni sondaggi, il presidente del consiglio italiano Giuseppe Conte gode dell’approvazione del 70 per cento della popolazione. Una percentuale straordinaria, se teniamo conto della tradizionale sfiducia degli italiani nei confronti della politica. Il presidente francese Emmanuel Macron ha descritto pubblicamente la lotta contro il virus come “una guerra”, e grazie a un approccio e a un linguaggio più “duro” oggi può contare con il sostegno della maggioranza dei francesi.
Approfittando di questo stato d’animo delle persone, alcuni leader stanno già alzando l’asticella. Il 20 marzo il governo ungherese ha presentato in parlamento una legge che, se approvata, concederebbe poteri dittatoriali al primo ministro Viktor Orbán per affrontare “l’emergenza”. Per un periodo di tempo indefinito, Orbán potrebbe ignorare qualsiasi legge ogni volta che lo riterrà opportuno, senza consultare i parlamentari. Le elezioni e i referendum sarebbero sospesi. Violare la quarantena sarebbe considerato un reato punibile con la detenzione, e lo stesso varrebbe per la diffusione di informazioni false o che possano causare “disordini”.
Non è chiaro chi sarebbe a stabilire quando un’informazione è “falsa”, perché le parole usate nel testo della legge sono abbastanza vaghe da poter includere qualsiasi critica nei confronti della politica sanitaria del governo. Niente di tutto ciò cancellerà il fatto che l’Ungheria è uno dei paesi europei meno preparati ad affrontare una pandemia, anche perché le politiche del governo nazionalista hanno spinto molte persone, inclusi i medici, a lasciare il paese.
In circostanze normali l’opposizione ungherese non tollererebbe mai un accentramento di poteri così spudorato nelle mani del primo ministro, soprattutto considerando che l’obiettivo di fondo del governo è evidentemente quello di nascondere i suoi fallimenti. Ma in questo momento anche le persone che normalmente avrebbero attaccato Orbán sono costrette a piegarsi. “Tutti i sistemi d’allarme sono stati disattivati”, spiega Péter Krekó, politologo ungherese. Secondo lui in questo contesto di paura crescente nessuno vuole sembrare poco patriottico, dando la sensazione di non avere a cuore salute e la sicurezza degli ungheresi. Tutti vogliono credere nell’intrinseca bontà della nazione e dello stato.
Le mosse di Netanyahu
Una transizione altrettanto brusca è in corso in Israele, dove Benjamin Netanyahu – ancora primo ministro nonostante non abbia vinto le ultime elezioni – ha fatto passare un decreto d’emergenza che gli permette di rinviare l’inizio del processo penale a suo carico e che blocca la convocazione del nuovo parlamento israeliano, controllato dall’opposizione. Inoltre Netanyahu si è arrogato nuovi poteri di sorveglianza che non prevedono alcun tipo di controllo.
In Israele le agenzie e le strategie solitamente usate per individuare i terroristi saranno sfruttate per monitorare il rispetto della quarantena, seguire le attività e i movimenti dei normali cittadini e registrarne lo stato di salute. Una parte della popolazione non accetterà mai questo ruolo rafforzato dei servizi di sicurezza né il giro di vite voluto da Netanyahu unicamente per i suoi interessi. Il quotidiano Haaretz ha già battezzato i provvedimenti “corona-golpe”. Ma fino a quando gli israeliani vivranno nella paura, una buona parte della società sarà disposta a tollerarlo.
Negli Stati Uniti succederà qualcosa di simile. Il sistema federale comporta dei vantaggi. I poteri relativi all’imposizione di una quarantena, per esempio, variano da uno stato all’altro, e a far rispettare le disposizioni saranno con ogni probabilità le forze dell’ordine statali e non quelle federali. Tuttavia, il presidente Trump ha già dimostrato di preferire le politiche di facciata rispetto alle azioni concrete, concentrandosi sulla chiusura dei confini invece che sulla produzione di massa di mascherine e test per i tamponi.
Nei prossimi mesi Donald Trump sfrutterà la crisi per rafforzare ulteriormente i suoi poteri
La storia di Trump parla da sé: lo scandalo ucraino, per cui è stato processato e assolto dal senato, dimostra che il presidente non ha nessun rispetto per lo stato di diritto, e l’indagine del procuratore speciale Robert Mueller sui rapporti tra il comitato elettorale di Trump e la Russia ha mostrato quanto il presidente disprezzi il dipartimento di giustizia. Trump ha già abusato dei suoi poteri presidenziali per ottenere vantaggi politici, e può contare su collaboratori e sostenitori che finora hanno sempre appoggiato le sue scelte discutibili. È molto probabile che nei prossimi mesi il presidente sfrutterà la crisi per rafforzare ulteriormente i suoi poteri, esattamente come cercano di fare Orbán e Netanyahu.
Possiamo presumere che sarà sostenuto fedelmente dal network televisivo Fox News e da molti statunitensi. Secondo Politico, il dipartimento di giustizia ha già chiesto al congresso il potere di sottoporre i cittadini americani a un fermo arbitrario senza un processo, anche se un’azione di questo tipo non è lontanamente necessaria. I parlamentari che ancora resistono davanti a queste iniziative devono prepararsi a essere accusati di mettere a rischio la vita degli americani.
In un universo alternativo, con un presidente diverso da quello attuale, le autorità sanitarie degli Stati Uniti avrebbero opzioni migliori, modalità migliori per incanalare l’angoscia pubblica e strumenti migliori per monitorare lo stato della popolazione, usando la tecnologia senza sospendere lo stato di diritto. La Corea del Sud, una democrazia solida e fiorente, sta sfruttando le applicazioni degli smartphone per controllare i pazienti contagiati e altre persone in quarantena, ma non ha avuto bisogno di sospendere l’attività del parlamento.
Sema Sgaier della fondazione Surgo, un’organizzazione che promuove l’utilizzo dei dati e della scienza comportamentale nell’ambito della salute pubblica, sottolinea che la tecnologia può essere molto utile, per esempio per monitorare il numero di casi e creare una quarantena mirata nelle aree più colpite ed evitare l’isolamento generalizzato adottato dalla maggior parte degli stati americani e da molti paesi europei. Inoltre la tecnologia per il tracciamento dei dati potrebbe essere impiegata in modo trasparente, offrendo ai cittadini il diritto a disconnettersi dal sistema una volta superata la pandemia.
In Polonia il governo non sembra in grado di usare queste tecnologie. Qui ci si affida ancora ai vecchi sistemi: nel nostro distretto rurale la polizia locale ci chiama regolarmente per assicurarsi che non usciamo di casa. Per chiunque sia rientrato nel paese dall’estero sono obbligatori 14 giorni di quarantena. Gli agenti sono molto educati. Fanno solo il loro lavoro, lo capisco. È importante far sentire le persone al sicuro. Ma né io né nessuna delle altre persone che figurano nelle loro liste abbiamo la certezza che una volta passata l’epidemia le autorità rinunceranno ai poteri acquisiti durante la crisi.
Anne Applebaum
[ The Atlantic, Stati Uniti ]
(Traduzione di Andrea Sparacino su INTERNAZIONALE)