Un anno di politica che si chiude. Un anno in cui tutti diranno d’essere usciti vincenti o, comunque non perdenti dal confronto. Da osservatori professionali, diamo qualche voto a 30 protagonisti (in ordine alfabetico).
Angelino Alfano. Dopo essere stato la punching ball dei renziani nella coalizione, l’inventore di Ncd, invece, sta fermo un giro, non candidandosi e dimostrando di non essere un poltronista, accusa ricorrente degli ex alleati di centrodestra e soprattutto nel suo ex partito, il Pdl. Voto 6 e mezzo.
Silvio Berlusconi. Tutti gli fanno la ola senza che il Cavaliere (che tristezza quei giornalisti che si piccano di chiamarlo «ex») abbia in realtà fatto nulla. Come il Giulio Andreotti della bella prima repubblica andata, anche l’inventore di Forza Italia lascia che il mondo gli giri attorno. Oggi Berlusconi è dato per vincitore a destra e manca senza aver fatto niente, se non aver tenuto in piedi la baracca azzurra. La ricerca di un’intesa con Matteo Salvini (vedi) è sempre stata ondivaga: insieme, distinti, uniti, distanti. Rilevante, invece, la sua netta presa di distanza dal M5s che, paragonata all’invaghimento bersaniano per i pentastellati, lo rende affidabile agli occhi di molti moderati. Voto 6 e mezzo.
Pier Luigi Bersani. L’ultimo anno di legislatura è stato il culmine di una rincorsa livorosa a Matteo Renzi (vedi). Una guerra di logoramento, cominciata un minuto dopo il suo arrivo a Palazzo Chigi, mandando Roberto Speranza (vedi) a contrattare ogni comma di ogni riforma, spesso riuscendo a piegare la peraltro resistibile spinta riformatrice del governo. L’ultimo titanico sforzo è stato alzare la posta di una possibile intesa col federatore Giuliano Pisapia (vedi), fino a fargli mollare il colpo. In realtà i numeri, finora, gli hanno dato torto: alle regionali siciliane, la sottrazione di voti al Pd s’è rivelata comunque inincidente nella sconfitta, facendogli la figura dell’untorello di manzoniana e berlingueriana memoria. Vuol fare il bis, pare, alle regionali lombarde, affossando Giorgio Gori, che avrebbe chance di farcela. Il flirt coi grillini, con arditi paragoni con la Dc, ormai sfiora il petting, ma il papà della ragazza, Beppe Grillo (vedi), non è troppo d’accordo e una volta ha già parlato di stalking. Un’altra parola inglese, dopo lo streaming triste di Palazzo Chigi, a marzo 2013, nel vano tentativo di fare il governo del cambiamento. Voto 4.
Laura Boldrini. Il 2017 se ne è andato come gli anni precedenti da quando siede sullo scranno più importante di Montecitorio, a parlare dei suoi temi: migranti, parità di genere, violenza verbale sul web detta anche hating. A un certo punto della legislatura pareva poter diventare l’anti-Renzi della sinistra-sinistra. Alla fine, un accasamento un po’ in sordina con Liberi e Uguali, per uno strapuntino parlamentare. Dalla leadership, al ceto politico. Voto 5.
Maria Elena Boschi. Un anno cominciato con le voci circa di una sua qual certa insistenza per rimanere nell’esecutivo, dopo la discesa di Renzi. Non è dato sapere se vere o meno. Forse un mezzo passo indietro, come quello dell’ex premier, le avrebbe giovato. Ricominciare dal Pd, dalle idee, dalle proposte sarebbe stato certamente più che conveniente di un anno a passato a difendersi dagli attacchi, spesso personali, culminati nella arena della commissione banche, con l’attività di sottosegratario oscurata in permanenza dalle polemiche, ormai grande capro espiatorio per antipolitica e avversari. La sua difesa, in parlamento, del suo ruolo e dei rapporti col padre, indicata dai nemici come menzognera forse senza aver mai fatto la fatica di leggerne lo stenografico, rappresenta invece, e paradossalmente, il momento più alto della sua vita pubblica. Voto 6 meno meno.
Carlo Calenda. Dopo anni passati a dir di sì, magari mormorando, a Renzi, come quando accettò di andare a fare l’ambasciatore a Bruxelles col mandato di menare le mani, il ministro ha trovato, sotto Gentiloni, il suo spazio e la sua dimensione, lavorando di grande lena su qualsiasi spinoso dossier. E prendendosi la libertà di dare qualche sportellata politica, al momento giusto. Ne sanno qualcosa il Pd o Michele Emiliano (vedi) sull’Ilva. Sembra irrisolto il suo rapporto di intesa-urto col segretario dem, anche se, chiudendo sugli scudi la vicenda Alcoa, ha correttamente ricordato che Renzi gli aveva dato lo specifico mandato di risolvere la crisi sull’alluminio sardo. Per questo è amato dai renziani della prima ora, che lo vedono come un succedano, non un successore, del Rottamatore. Voto 8.
Davide Casaleggio. Le successioni, in politica, funzionano raramente. Se poi si decide di stare nel campo pre-para-politico della «srl» che fa da motore a un «non-movimento», è ancora più difficile. La piattaforma digital-assembleare che ha prodotto è stata dileggiata anche da qualche hacker malandrino e ora dovrà mostrare di funzionare con l’assedio di candidati da ogni dove del mondo pentastellato (uno vale uno, no?). Le sue uscite pubbliche, in convegni o nei salotti tv della sensibilissima La7, sono state incolori. Voto N.C.
Giuseppe Civati detto Pippo. Eroe dei cronisti politici quando era la punta avanzata antirenzismo, ha conosciuto l’oblio da quando ha fondato Possibile, mix fra Tsipras e Podemos. La sensazione è che abbia gettato alle ortiche una carriera, mettendosi assieme agli altri arrabbiatissimi ex dem, che peraltro aveva contestato, intelligentemente, nella primissima Leopolda, quella del 2010. Voto 4.
Massimo D’Alema. Il Lider Maximo ormai «si ripete sempre uguale», come diceva Lucio Dalla, in una vecchia canzone, a proposito della «musica andina, una noia mortale». Solo che per D’Alema il «sono più di tre anni», che cantava il bolognese a proposito degli Inti Illimani, diventa «più di 30». Voto 4.
Graziano Delrio. Il patriarca, come lo chiama Renzi, fa bene il ministro come aveva fatto bene il sindaco di Reggio Emilia. Nel Pd, talvolta, dà l’impressione d’essere strutturalmente tiepido: dal fuori onda critico verso il segretario, reo di non aver fatto «nemmeno una telefonata» ai transfughi bersaniani, all’assenza, risentita, nel consiglio dei ministri che confermava Ignazio Visco a Bankitalia. L’Apocalisse, che Delrio da cattolico conosce bene, destina quelli «né caldi né freddi» a essere vomitati. La terza repubblica chissà . Voto 5.
Alessandro Di Battista. L’annuncio del ritiro gli è valso il plauso di commentatori à la page. Peraltro pochi ci hanno creduto. Un anno di uscite aggressive che si faticano però a ricordare. Salvo appunto l’aggressività . Rimangono impresse, viceversa, le liriche del libro esistenziale e avventuroso, pubblicato a rate, per dispetto, dal Foglio. Voto 3.
Luigi Di Maio. «Fuori corso», «steward del San Paolo», «eletto con una manciata di voti», il vicepresidente della camera non fa mai una piega e recita fino in fondo il suo ruolo di candidato premier. Imperturbabile anche quando gli spiattellano clamorosi errori di calcolo di future manovre economiche. Voto 3.
Michele Emiliano. Il magistrato in aspettativa, dopo aver perso il referendum sulle trivelle, il congresso Pd (e forse il treno per l’uscita dal Pd), non molla sul gasdotto Tap facendo scivolare la frizione con una battute su Auschwitz di cui però si è scusato. Ora vuol vincere sull’Ilva. Secondo Calenda, ci perderebbero Taranto e l’Italia. Voto 3.
Dario Franceschini. Il Grande Centro del Pd è suo, anche se l’accostamento con i Gava o i Bisaglia del partito della sua gioventù, la Dc, non gli piace, anche perché stava a sinistra. Allora. Oggi fa bene il ministro e l’azionista di riferimento nel patto di sindacato, che garantisce a Renzi d’essere il ceo del Pd. Dandogli qualche gomitata ogni tanto, per poi scusarsi un attimo dopo. La rendita di posizione potrebbe però non pagare sempre. Voto 6.
Maristella Gelmini. L’ex-ministra dell’Istruzione, cui si devono ancora alcune regole di civiltà nel mondo accademico, specialmente nel reclutamento dei docenti, tiene botta. Regge all’eterna giostra berlusconiana, dalla quale ogni tanto vola fuori qualcuno. Il Cavaliere le ha dato carta bianca per contrattare la Lombardia con Lega. E sarà un brutto cliente per Roberto Maroni e per Salvini. Voto 6 e mezzo.
Paolo Gentiloni. Leader felpatissimo, understatement limitato, lontano anni luce dall’estremismo rosso giovanile: quello che ci voleva dopo i mille giorni «esagerati» del suo predecessore. Il premier è riuscito a condurre senza strappi la macchina, capitalizzando il lavoro di Renzi senza cannabalizzarlo, rimanendogli formalmente amico, come lo era dalla prima ora, ma restando distinto e sapendogli dire di no, o non dire, quando il Quirinale, glielo ha chiesto. Il caso Visco su tutti. Ormai è il cavallo su cui anche molto antirenzismo punta, per tenere lontano il Rottamatore da Palazzo Chigi. Lui lo sa e non dissumula di volerne approfittare, ottimista di non dover pagare troppi prezzi. La campagna elettorale però sarà una cartina di torna sole: esser «bigi», stavolta, non si potrà . Voto 7.
Piero Grasso. La seconda carica dello Stato che, a una manciata di giorni dalla fine della legislatura, cambia casacca e fragorosamente, confessando un disagio durato (e taciuto) per anni, quelli dell’arrivo di Renzi al Pd, è un regalo enorme all’antipolitica. Voto 4.
Beppe Grillo. Imperturbabile, imperterrito guida l’assalto alla diligenza della politica. E pazienza se i suoi, anziché aprire il parlamento come una scatoletta, a frotte hanno usato il suo M5s per sistemarsi altrove e comodamente. O se l’esperienza amministrativa di punta, il Campidoglio, non pare riuscire neppure nei fondamentali, come strade e spazzatura, andando a pietire un po’ di fuoco inceneritore dal reprobo Federico Pizzarotti. Confida che gli italiani stiano dalla sua, a prescindere. Voto 4.
Lorenzo Guerini. L’ex-sindaco di Lodi è il più solido uomo di Renzi, capace di negoziare, di smussare, di mediare, laddove il capo non riesce. Un vero democristiano, tanto da mantenere il ruolo di coordinatore nazionale, mentre Maurizio Martina, dopo il vittorioso ticket con Renzi alle primarie, aveva avuto la vicesegreteria che fu sua. Voto 7.
Giorgia Meloni. Ha proseguito nel suo percorso di affrancamento dalla destra della Garbatella, tentando di una via italiana al lepenismo. Risulta però schiacciata fra Berlusconi e Salvini. E le varie Casepound e Forze Nuove fanno concorrenza sull’estrema. Futuro complicato. Voto 6 meno.
Marco Minnitti. Anno d’oro per uno dei Lothar di D’Alema: il ministro degli Interni che ha saputo conquistarsi il rispetto degli avversari e il consenso di molti moderati. Dentro al Pd, a qualcuno non è piaciuto un certo decisionismo sui dossier dell’immigrazione ma la sua spiegazione «sul rischio della tenuta democratica», ha convinto molti. A Renzi, invece, certamente non è garbato il continuo rialzo delle sue quotazioni per Palazzo Chigi nel 2018, in alternativa a lui e a Gentiloni. Voto 7.
Andrea Orlando. Il guardasigilli ha giocato a fare l’avversario del segretario dem, marcando la distanza al congresso, con toni che hanno finito per scavare un fossato. E così eccessivi da far chiedere a molti piddini: dove si trovasse prima. A volte è sembrato pronto per l’uscita da sinistra. La distanza da Renzi è oggi tale che non sarà semplice per lui fare la campagna elettorale distinta e che non suoni semplicemente «contro». Voto 5.
Giuliano Pisapia. Il desiderio di recitare un ruolo nazionale veniva da lontano, almeno dagli ultimi anni di sindacatura milanese. Il suo arancione s’è scontrato col rosso che voleva federare e la battaglia cromatica ha inevitabilmente assunto i toni della commedia, che forse il tentativo non meritava. Gli è mancata però la capacità di saper perdere, mostrata dal passo indietro definitivo e precipitoso. Voto 5.
Romano Prodi. Un anno di camping, attendato nei pressi del Pd, ha smontanto la canadese per rimontarla altrove, poi l’ha riavvicinata. Faticando a dominare il suo risentimento verso Renzi, culminato nell’abbraccio bolognese a Visco, all’indomani delle polemiche dell’ex-premier. Con lo slancio dell’eterna riserva della Repubblica, il padre dell’Ulivo, si è gettato nella mischia provando a caverne una riedizione 4.0. Vent’anni son passati, però, e si vede. Voto 5-6.
Virginia Raggi. Presentare come un grande risultato, «traguardo memorabile», il bilancio preventivo del Campidoglio la dice tutta. Ormai il tempo dell’inesperienza è passato e a Roma pare impossibile l’ordinario. Voto 3.
Matteo Renzi. Era partito bene, col passo indietro dal governo e dal Pd, ottenendo una larga reinvestitura dai gazebo che aveva spiazzato i detrattori. Dopo, però, Renzi è parso impegnarsi solo nella ricerca o nel recupero dell’elettorato a sinistra, quasi che quello centrista e moderato fosse perduto definitivamente. E il tasso di riformismo ne ha risentito, mentre la rottamazione è sparita dal vocabolario ma, quel che è peggio, dal pensiero. Renzi s’è derenzizzato. Anche la rivendicazione dei successi del suo governo, di cui gode Gentiloni, è parsa fiacca. Come nel film di Nanni Moretti, qualche milioni di italiani, molti di quelli che votarono Sì al referendum, stanno davanti alla tv a dire: «Dì qualcosa di renziano». Voto. 6 meno.
Matteo Richetti. Era salito, pimpante, sul treno propagandistico del Pd, sfoderano le sue doti di comunicatore, ma l’ex-presidente del consiglio regionale emiliano non riesce sempre a moderare quella competizione con l’altro Matteo, compagno di tante Leopolde: parlando a Napoli, a una riunione dem, non ha resistito alla tentazione di bacchettare Renzi in pubblico. Prevedibile un ritorno del freddo fra i due, come era già accaduto in passato. Eppure la sensazione è che la massima «insieme staranno o insieme cadranno», sia stata scritta per loro. Voto 6.
Matteo Salvini. Ha raccolto un Carroccio ai minimi termini e ne ha fatto una forza in doppia cifra percentuale nei sondaggi. L’eurodeputato però ha sottovalutato i referendum-nostalgia di Maroni e Luca Zaia (vedi) e il loro impatto su una Lega da cui lui ha voluto togliere «Nord» persino dal nome. L’accantonamento un po’ troppo disinvolto dei temi «No euro», che nel 2014 aveva inserito persino nel simbolo, sta esponendo l’agguerrita comunità antieurista, che ha votato Lega, alla concorrenza sarcastica di Forza Nuova. Il mancato successo in Francia di Marine Le Pen, di cui Salvini aveva scelto di essere il gemello italiano, non ha giovato. L’ultimo periodo dell’anno l’ha trascorso girando l’Italia e alzando molto i toni della propaganda, anche a costo di alienarsi un certo moderatismo di stampo cattolico in cerca d’autore. L’impianto prevalentemente proporzionale del Rosatellum gli basta, per adesso. Sa che sarà meglio non governare con maggioranze comunque risicate. Voto 6.
Giovanni Toti. Era cominciata male anni fa, con la photo opportunity in accappatoio bianco col Cavaliere, dal balcone di un centro benessere, e il suo passaggio dal giornalismo alla politica sembrò annegare nel ridicolo. Toti però ora dimostra di saper fare il governatore e il politico, tanto da aver vinto le comunali di Genova, pescando il candidato giusto e stringendo un’alleanza vera con la Lega. Aspetta il suo turno, a livello nazionale, e senza passare dalla spa. Voto 7.
Luca Zaia. Un’altra Lega è possibile. Il suo referendum, ancor di più di quello di Maroni in Lombardia, è un messaggio al segretario Salvini: «Se le urne, soprattutto al Sud, non ti premieranno, ci riprenderemo il partito». Voto 7.