Che si respiri un’aria da Prima Repubblica non ci piove. Uno: la nostalgia per una classe politica che, per quanto sprecona, sapeva il fatto suo. Due: il confronto (impietoso) tra il buon livello culturale delle nomenklature del passato e il modesto livello culturale del presente. Tre: la rivalutazione in atto di Bettino Craxi (1934-2000), la cui caduta agevolò il tracollo della Prima Repubblica. Quattro: il ritorno in grande stile del modello elettorale proporzionale, ossia del pilastro che fino al 1993 ha rappresentato la Costituzione materiale della nazione. E ci fermiamo qui, anche se abbondano gli altri indizi sul revival della Prima Repubblica.
A dire il vero, la Prima Repubblica era stata (solo) sedata dal ciclone di Tangentopoli, ma non aveva mai varcato la soglia del cimitero. Non l’aveva mai varcato perché le riforme che avrebbero dovuto costruire l’ossatura della Seconda Repubblica erano rimaste tali a metà. E se non fosse stato per l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle Regioni, unica vera novità radicale partorita agli inizi degli anni Novanta, neppure per scherzo, o per accademia, si sarebbe parlato di Seconda Repubblica, visto che la Prima Repubblica aveva mostrato di possedere difese immunitarie in grado di contrastare tutti gli attacchi alla sua pur incerta salute.
Perché la Prima Repubblica sembra più imperforabile della difesa juventina quando gioca Giorgio Chiellini? Non solo perché è riuscita a preservare la Costituzione formale da ogni riforma in senso, diciamo così, anglosassone, ma soprattutto perché è riuscita a vincere le tre partite più importanti che ha dovuto affrontare nel corso della sua storia.
Prima partita. È il 1953. Il democristiano Alcide De Gasperi (1881-1954) cerca di introdurre elementi maggioritari nel sistema politico. Idea: la coalizione vincente (se supera il 50% dei voti) avrà diritto ai due terzi dei seggi parlamentari. Il che, nei piani di De Gasperi, dovrebbe facilitare i tentativi di riformare la Costituzione in direzione di un maggiore potere decisionale da parte del governo. Ma l’operazione degasperiana, presto bollata come «legge truffa» dalle opposizioni, non supera per un soffio la prova delle urne. De Gasperi accusa il colpo. I suoi rivali e avversari stappano bottiglie di champagne per lo scampato pericolo.
Seconda partita. È il 1999. Mariotto Segni, artefice delle prime importanti spinte verso la democrazia decidente, ossia verso il modello maggioritario, conta di chiudere il cerchio chiedendo agli elettori di eliminare il residuo 25% di proporzionale ancora rimasto in piedi per le votazioni politiche. Sembra fatta. Ma anche stavolta un pugno di voti (in meno) è sufficiente per abbattere ogni illusione. Il referendum non oltrepassa per un pelo il quorum di affluenza del 50%, soglia fondamentale per la validità della consultazione, cosicché il proposito di archiviare proporzionale e Prima Repubblica svanisce nell’incredulità generale. Anzi. Comincia da quella data, a piccoli passi, la rimonta culturale della proporzionale e della Prima Repubblica.
Terza partita. È il 2016. Matteo Renzi pensa di fare le cose in grande varando una mega-riforma che ridisegna, innanzitutto, i poteri di Stato e Regioni. È una sfida che, nelle intenzioni dell’autore, dovrebbe fare da battistrada a un modello elettorale dichiaratamente maggioritario. Ma Renzi sbaglia tutto personalizzando la contesa, che presto si trasforma in un referendum su di lui, anziché sulle modifiche costituzionali appena approvate dal Parlamento. Risultato: riforma bocciata dagli elettori, revisione delle regole sospesa a tempo indeterminato, rilancio della posta da parte del fronte proporzionalistico.
Oggi, solo un inguaribile ottimista o un proverbiale spirito incosciente scommetterebbero dieci euro sul ritorno di una stagione riformatrice sulla falsariga degli obiettivi delineati nella fase crepuscolare della Prima Repubblica. Anzi. L’aspirazione prevalente resta proprio quella di ripristinare ufficialmente la Prima Repubblica che, in realtà, come testè detto, non si era mai eclissata del tutto, visto che la Costituzione, diversamente dalle norme elettorali, non aveva mai subìto strappi particolarmente significativi.
Gira e rigira, l’Italia rimane il Paese delle riforme impossibili, perlomeno sul piano delle regole del gioco. In tre occasioni, i cittadini hanno avuto l’opportunità di passare dalla democrazia declamante alla democrazia governante. In tutte e tre i casi, però, gli italiani hanno optato per lo status quo, dimostrando di non gradire molto i sistemi decidenti in auge in molte nazioni.
In questi giorni si è letto da più parti, nelle recensioni ai numerosi libri e al film su Bettino Craxi, che l’errore più grave, sul piano politico, del capo socialista fu il suo improvviso disamoramento per la Grande Riforma da lui invocata e proposta per diversi anni. Chissà se davvero, quello di Craxi, fu un errore. In Italia, non si sa perché, tutte le riforme un po’ più incisive non fanno mai molta strada, a meno che non siano spalmate nel tempo e depotenziate anno dopo anno. In caso contrario, ogni tentativo di accelerazione si blocca alla prima curva.
Ecco perché meraviglia il tam tam sul (presunto) prossimo risveglio della Prima Repubblica. La verità è che tutto, nella migliore tradizione del gattopardismo italico, è rimasto come prima, anzi l’enfasi sul voto in Emilia-Romagna per le possibili ricadute nazionali del test del 26 gennaio sta a confermare che la Prima Repubblica, a differenza di quanto sosteneva e rimpiangeva Checco Zalone in Quo vado, è più viva, vegeta e forte che mai, e lotta insieme alla maggioranza degli italiani.
GIUSEPPE DE TOMASO
[ LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO ]
FOTO. Una veduta del palazzo del Parlamento a piazza Montecitorio a Roma. ANSA/CLAUDIO ONORATI