La sentenza della Corte Costituzionale che ha modificato gli indennizzi per i licenziamenti illegittimi e il ritorno in grande stile della cassa integrazione straordinaria si aggiungono alla stessa via imboccata ad agosto dal Decreto Dignità . In materia di lavoro, con questa maggioranza si torna idealmente a concezioni figlie degli anni Settanta: quando l’universo delle imprese, delle modalità organizzative e delle mansioni nel processo produttivo, delle relazioni industriali e dei confronti contrattuali, erano tutti ancorati all’orizzonte ideale della fabbrica fordista. Da allora si sono affermate se prendiamo ad esempio il mondo dei metalmeccanici – ben tre profonde rivoluzioni del modo concreto di domandare e offrire lavoro nelle imprese: negli anni Ottanta la Lean Production modello Toyota, negli anni Novanta il metodo World Class Manifacturing portato alla massima eccellenza in Italia e Usa dalla Fiat di Marchionne, e da tre anni anche in Italia sta attecchendo la rivoluzione di Industria 4.0.
Ciascuna di queste ondate ha modificato in profondità le competenze e le prestazioni di lavoro, le necessità concrete di contrattare tra imprese e lavoratori turni e orari, formazione permanente e salario di merito insieme a welfare aziendale. L’idea del lavoro uguale per la vita, nella stessa azienda e nella stessa mansione tranne gli scatti di anzianità , è tramontata da decenni. Eppure nel nostro Paese continuiamo a commettere un errore di fondo. La realtà evolutiva che vive ed evolve nei territori e in migliaia di aziende non riusciamo a misurarla e regolarla secondo criteri economici concertati. Ci affidiamo alla prevalenza degli schemi giuridici del giuslavorismo: che continuano a essere inficiati dalla divisione in scuole politico-ideologiche figlie del passato, indifferenti agli effetti economici delle sentenze e degli articoli di legge.
Di questo era figlia la marcia indietro con il ripristino delle causali per i contratti a tempo, e l’aumento dei loro oneri in caso di rinnovo introdotti con il Decreto Dignità : sbandierata come maggior tutela ai lavoratori precari, diventa in effetti un disincentivo alla prosecuzione dei contratti a tempo. Cioè meno occupati e minori possibilità che poi, con il rinnovo, essi possano diventare un ponte verso la trasformazione in contratto a tutele crescenti.
Considerazioni analoghe valgono per i probabili effetti della sentenza della Corte costituzionale. La Consulta ha giudicato illegittima la norma che nel Jobs Act stabiliva l’indennizzo per i licenziamenti considerati illegittimi, quantificandolo rigorosamente in base agli anni di anzianità , da un minimo di 4 mesi a un massimo di 24. Già il decreto Dignità aveva elevato minimo e massimi a 6 e 36 mesi, ma facendo restare intatto il meccanismo. La Corte spazza via l’automaticità , asserendo che sarebbe lesiva di eguaglianza e ragionevolezza. E restituisce al giudice la valutazione discrezionale dell’indennizzo a prescindere dalla durata pregressa del rapporto di lavoro, sia pur sempre nel limite delle somme modificato dal Decreto Dignità .
Ripristinare la discrezionalità del giudice ha un effetto antieconomico evidente. Torna a far crescere il contenzioso, che dai tempi del Jobs Act era sceso sui licenziamenti illegittimi del 66%. Riafferma come dominus il pensiero di ogni singolo magistrato, libero di considerare che malgrado un rapporto di lavoro breve se l’azienda ha molti dipendenti deve pagare di più, e anche se piccola magari deve pagare di più se sta al Sud dove la disoccupazione è più alta. O vedremo per quale altra ragione, visto che a quel punto i termini di riferimento varieranno da sentenza a sentenza. In più, i minimi e i massimi e la meccanicità dell’indennizzo secondo durata contrattuale erano stati stabiliti anche come riferimento per tutti i dipendenti che, sconsigliati dall’adire il giudice dai loro stessi avvocati, provavano comunque con l’azienda a chiedere indennizzi sia pur inferiori a quelli per i quali esporsi ai costi del contenzioso. Con questa sentenza, anche nelle trattative dirette tra parti le richieste monetarie non potranno che salire.
Non è maggior tutela, introdurre criteri arbitrari e discrezionali per valutare un indennizzo. Alza solo il costo implicito di assicurazione a carico dell’impresa per ogni contratto, in caso di rescissione sul filo di ciò che all’azienda sembra un licenziamento legittimo per oggettive ragioni economiche o per motivi disciplinari, e al lavoratore sembri invece un licenziamento discriminatorio. Aumentare tutte queste incertezze ha un costo certo: meno occupati. Ma a questo il diritto resta indifferente.
Sulla stessa linea è il ritorno in grande stile alla Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria, per le imprese che cessano o sono in procinto di arrestare l’attività produttiva. Il nuovo ammortizzatore potrà avere una durata fino a un massimo di 12 mesi e varrà intanto per gli anni 2019 e 2020. L’obiettivo è garantire un sussidio ponte a quei lavoratori coinvolti in crisi aziendali pesanti, in attesa di una loro ricollocazione. Il trattamento si attiva per aziende che cessino l’attività , o per le quali si valuti la possibilità di reindustrializzarne il sito.
La riforma del 2015 aveva gradualmente avviato a estinzione le vecchie Cig, sostituendole con il sussidio universale di disoccupazione, la Naspi, fino a 24 mesi. E in questo scenario nei primi sette mesi dell’anno le ore di Cigs autorizzate dall’Inps, nel tendenziale, si sono pressoché dimezzate (-46,4%) sull’anno precedente, e l’utilizzo effettivo delle ore di Cigs richieste si è fermato a un modesto 26%. Mentre si accrescevano le domande di Naspi. Al sindacato la riforma degli ammortizzatori sociali del Jobs Act non era mai piaciuta: hanno sempre chiesto di far restare il vecchio schema. E ora puntualmente i Cinque Stelle si prestano volentieri alla richiesta.
Direte voi: bene no, che male c’è? Mica vuoi far restare i lavoratori per strada? Neanche per idea. Il punto è un altro, ancora una volta concettuale. Finché continueremo a preferire il vecchio schema Cig di difendere il lavoro dov’era e com’era, stiamo lottando per la difesa del passato, non in marcia verso il futuro. Bisogna spostare soldi e strumenti verso le politiche attive del lavoro, quelle che danno formazione permanente e intermediano con successo domanda e offerta di occupazione. E’ il capitolo che in Italia non è mai decollato. Perché il sindacato crede sempre che le fabbriche non debbano chiudere mai. E ora i Cinque Stelle confondono le politiche attive con il rilancio dei vetusti e inefficienti Uffici provinciali del lavoro che diventano il primo stadio del reddito di Cittadinanza, mentre bisognerebbe puntare su un grande sistema in cui lo Stato si limita a stabilire i requisiti per accreditare i soggetti privati incaricati della formazione e dell’intermediazione efficace dell’occupabilità , incentivando e premiando i migliori che hanno percentuale di successo a doppia cifra, non lo scarso 3% cui non arrivano gli Uffici del lavoro pubblico.
Continuiamo così, facciamoci del male. Sono tutte decisioni che in nome di una malintesa tutela e giustizia abbassano l’occupabilità e la rendono più onerosa. Non lamentiamocene, poi, addossandola al mercato e alle imprese cattive.