Ma davvero il ministro dell’Economia non ha niente da dire sul solenne funerale della presunzione di non colpevolezza nei procedimenti penali che si celebrerà il primo gennaio, quando verrà tolta di mezzo la prescrizione? Ci sono già tanti motivi per non investire in Italia. Quale azienda estera, d’ora in poi, vorrà correre il rischio di rimanere invischiata in un qualche procedimento giudiziario per l’eternità? Vicenda dell’Ilva più abolizione della prescrizione rappresentano una doppietta micidiale. Il messaggio è forte e chiaro: se venite ad investire in Italia siete dei pazzi.
È questo della prescrizione l’ultimo atto di un movimento,
iniziato molto tempo fa , teso alla penalizzazione integrale della società italiana, alla affermazione di un panpenalismo che soffoca la società senza peraltro rimediare affatto a quei mali che il panpenalismo medesimo pretende di curare. Ritorno, data l’importanza del tema, sulle cause di questa dilatazione incontrollata dell’ambito di azione del diritto penale (Corriere, 9 dicembre ). La principale causa consiste, a giudizio di chi scrive, in un rovesciamento dei rapporti di forza fra potere giudiziario (ciò che la Costituzione chiama «ordine» ma che, di fatto, è diventato un potere) e potere politico- rappresentativo a favore del primo.
Un rovesciamento che, nella mia interpretazione, si compie quando , una trentina di anni fa, finisce quella che veniva chiamata «Repubblica dei partiti» o anche, del tutto impropriamente, «Prima repubblica». Se questa interpretazione è corretta la domanda più importante diventa: perché la democrazia italiana non riesce a trovare un equilibrio soddisfacente fra potere politico (rappresentativo) e ordine giudiziario? Nella suddetta «Repubblica dei partiti» non c’era alcun equilibrio: semplicemente l’ordine giudiziario era subordinato al potere politico. La fine di quella esperienza, anziché generare finalmente una condizione di equilibrio, ci ha fatto passare da uno squilibrio all’altro: dal predominio della politica sul giudiziario al predominio del giudiziario sulla politica. Che cosa c’è di così insano , di così malato, nella nostra tradizione politico- culturale che non ci permette mai di disporre di un effettivo equilibrio fra i poteri?
Le due condizioni, quella della Repubblica dei partiti e quella dell’attuale Repubblica giudiziaria mettono capo a differenti tipi di «incompatibilità strutturale» se mi si passa questa espressione: ci sono cose impossibili o interdette nel primo caso e altre cose, diverse dalle prime, altrettanto impossibili o interdette nel secondo caso. Nella Repubblica dei partiti di un tempo non avrebbero mai potuto avere libertà di azione, ad esempio, magistrati come Piercamillo Davigo o Luigi De Magistris ( prima che diventasse sindaco di Napoli) o Henry John Woodcock .
Nella repubblica giudiziaria , per contro, non può affermarsi una leadership politica forte. Ho visto (e me ne dispiace) che Antonio Di Pietro si è offeso quando ho citato Piazzale Loreto per indicare metaforicamente la fine che in questo assetto fanno i leader forti (da Craxi a Berlusconi a Renzi) . Ma si trattava di una metafora che mi serviva per indicare un fatto che credo vero: una leadership forte o potenzialmente forte è possibilissima in altre democrazie occidentali (e ce ne sono tantissimi esempi) ma non lo è in Italia. Perché qui essa suscita una potente crisi di rigetto, con conseguenze giudiziarie. Anche al di là della consapevolezza dei vari protagonisti.
E allora, per ritornare alla domanda: perché in Italia bisogna per forza passare da uno squilibrio all’altro, perché non è possibile una condizione di effettivo equilibrio dei poteri? Temo che la spiegazione, almeno in parte, sia questa: un segmento ampio del pubblico, degli elettori comuni ma anche una consistente fetta delle cosiddette élites ( politiche ma anche intellettuali, della comunicazione, eccetera) non dispongono di credenziali democratiche credibili. In altre parole, la democrazia (l’unica possibile, quella rappresentativa) è — oggi come in passato — avversata da molti italiani. Perché allora la suddetta democrazia , pur con tutte le sue magagne , in Italia dura da tanto? Soprattutto perché ci sono state fino ad oggi condizioni internazionali favorevoli. Se in futuro quelle condizioni non ci saranno più, allora saremo nei guai. L’incapacità di dare vita a rapporti equilibrati fra i due poteri è uno dei molti effetti dell’ inaffidabilità democratica di tanta parte del pubblico e delle élites.
Che cosa richiederebbe un corretto equilibrio fra i poteri? Richiederebbe auto- limitazione e rispetto reciproco, riconoscimento da entrambe le parti dell’essenzialità della funzione svolta dall’altra. Richiederebbe , da parte della politica, assoluta non interferenza nella attività dei giudici (ho detto giudici, non genericamente magistrati) data la preziosissima opera che il giudice svolge in uno (autentico) Stato di diritto e richiederebbe massima attenzione , in questo caso da parte dei magistrati procuratori, quando si aprono inchieste che investono gangli strategici della vita democratica. Tenuto conto dei tassi di assoluzione registrati, certi magistrati che aprono inchieste a ripetizione senza disporre di prove schiaccianti, che accumulano troppe sconfitte nelle aule dei tribunali dopo avere però compromesso il buon funzionamento delle istituzioni, dovrebbero essere rimossi o puniti dalla magistratura stessa.
Per tutelare il proprio buon nome e imporre quell’autolimitazione e quel rispetto per la funzione , altrettanto preziosa di quella dei giudici, di coloro che occupano cariche rappresentative. Ma per ottenere un equilibrio fra i poteri fondato sull’autolimitazione e sul rispetto reciproco occorrerebbe un pubblico democraticamente avvertito ed esigente. Un pubblico consapevole che qualunque potere, sia esso politico, giudiziario o di altro tipo, è pericoloso per la comunità se non è limitato (se , per esempio, non dispone di meccanismi interni che lo limitino e lo frenino). Fino ad oggi quel pubblico non ha dato mostra di esistere.
Per tornare da dove siamo partiti. «C’è un giudice a Berlino»: è la frase che evoca la celebre storia del mugnaio che in Prussia cerca un giudice che lo protegga da un abuso fatto ai suoi danni dal re. Sulla prescrizione: c’è una Corte costituzionale a Roma?
Angelo Panebianco
[ CORRIERE DELLA SERA ]