La Libia sembra sprofondare nuovamente nel conflitto civile: da oltre una settimana, ormai, le forze agli ordini del generale Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica, hanno lanciato un’offensiva militare per prendere possesso della capitale Tripoli, controllata dalle milizie del Governo di Accordo Nazionale guidato da Fayez al-Sarraj e sostenuto dall’ONU. Negli ultimi due giorni si sono intensificati i combattimenti nella periferia sud-occidentale della capitale mentre è di ieri sera la notizia dell’abbattimento di un aereo militare di Haftar da parte delle forze tripoline, che si aggiunge a quella della resa di un’intera compagnia del Libyan National Army alle milizie di Misurata, schierate con Tripoli. Nel contempo proseguono gli incontri politici delle due parti con i rispettivi sostenitori regionali e internazionali, volti a rafforzare la propria posizione in vista di uno scontro prolungato che appare sempre più probabile. Mentre Haftar si è recato al Cairo, dove ha incassato il rinnovato supporto del presidente egiziano al-Sisi per la continuazione dell’offensiva, i funzionari di al-Sarraj hanno avuto vari incontri con paesi Europei, inclusa l’Italia, dove il 15 aprile si è svolta una consultazione tra il premier Giuseppe Conte e il vice presidente del Consiglio Nazionale Libico Ahmed Maitig. Con la conferenza Nazionale promossa dall’ONU definitivamente naufragata e i due schieramenti sempre più arroccati nelle proprie posizioni, il destino del Paese sembra sempre più lontano da una soluzione politica e in balia della violenza armata. Chi è Khalifa Haftar? Come sta reagendo la comunità internazionale? Quali sono gli interessi in gioco? E quali i possibili scenari?
Chi è Khalifa Haftar?
Khalifa Haftar non è una figura nuova della scena politica e militare libica. Membro del gruppo di generali che sotto la guida di Muammar Gheddafi prese il potere nel 1969, Haftar riuscì a raggiungere il rango di Colonnello prima di essere imprigionato in Ciad e poi esiliato negli Stati Uniti per oltre vent’anni a causa della umiliante sconfitta militare che le forze sotto il suo comando subirono nella guerra proprio contro il Ciad nel 1980. Il ritorno di Haftar al centro delle vicende libiche è avvenuto nel 2011, durante il caos creato dalla rivolta contro Gheddafi, nella quale Haftar si è da subito distinto come uno dei principali comandanti delle formazioni ribelli nell’est del paese. Rimasto nell’ombra fino al 2014, il generale è riapparso pubblicamente proponendosi come protettore della Libia contro l’operato del Congresso Generale Nazionale (General National Congress, GNC) insediato a Tripoli e creando l’Esercito Nazionale Libico (Libyan National Army, LNA), di cui è diventato feldmaresciallo alla fine del 2014, dopo una serie di vittoriose offensive militari, note come Operazione Dignità, volte a liberare Benghazi dalla presenza di milizie islamiste di ispirazione salafita.
I successi militari di Haftar, ottenuti anche grazie al cruciale sostegno politico e militare di potenze regionali quali Egitto ed Emirati Arabi Uniti, interessate a prevenire l’insorgere di movimenti radicali nel Paese, hanno progressivamente incrementato la sua credibilità e il suo potere politico, proiettandolo già nel 2015 nel ruolo di principale decisore per conto del governo di Tobruk, sorretto dalla Camera dei Rappresentanti. Questa ascesa è avvenuta a spese del Governo di Accordo Nazionale e del suo leader Fayez al-Serraj, che hanno visto erodere la propria credibilità sia sul piano interno sia su quello internazionale, con vari paesi – soprattutto Francia e Russia – impegnati a riconoscere ad Haftar un ruolo di maggior peso all’interno del processo di riconciliazione nazionale.
Attualmente, le forze sotto il comando di Haftar sono ancora riunite sotto la bandiera dell’Esercito Nazionale Libico e, seppur disparate nella loro composizione, controllano saldamente tutta la regione orientale della Cirenaica, oltre ai principali centri strategici e le vie di comunicazione del Fezzan, nel sud ovest del Paese. L’ultima offensiva lanciata da Haftar per ottenere il controllo di Tripoli conferma tanto la sua spregiudicatezza militare quanto le forti ambizioni personali per giungere definitivamente ad un controllo territoriale e politico del Paese. Per ottenere questo obiettivo, Haftar sta cercando di legittimare la propria immagine soprattutto sul piano interno, presentandosi come l’uomo forte in grado di porre fine all’instabilità e ridare ai libici sicurezza e lavoro. Se, da un lato, Haftar sta sfruttando i canali mediatici e i social media per diffondere il proprio messaggio e ampliare la propria base di consenso, dall’altro l’estesa propaganda dell’attuale offensiva militare ha il preciso scopo di gonfiare le capacità delle proprie forze, mirando pragmaticamente ad una soluzione negoziata. Una conquista manu militari di Tripoli appare infatti impossibile, a meno di uno spargimento di sangue che sarebbe deleterio per entrambi gli schieramenti e rischierebbe di alienare parte dell’appoggio popolare di cui gode all’interno della capitale lo stesso leader del LNA.
La fine degli accordi di Skhirat promossi dall’ONU?
L’accordo politico (e di pace) tra il Congresso Generale Nazionale (GNC), con sede a Tripoli, e la Camera dei Rappresentanti stabilitasi a Tobruk, siglato nella località marocchina di Skhirat nel dicembre 2015, ha rappresentato fino ad oggi il perno giuridico e istituzionale attorno al quale si è sviluppato il processo di riconciliazione nazionale promosso, seppur con scarsi risultati, dalle Nazioni Unite. L’offensiva ordinata nei giorni scorsi dal generale Haftar per assumere il controllo di Tripoli sembra di fatto sancire il definitivo fallimento di tale accordo, la cui validità è comunque di fatto rimasta confinata sulla carta e da cui è originata una lunga fase di impasse politica che, nel corso degli ultimi tre anni e mezzo, non è riuscita a ricomporre il quadro di profonda frammentazione istituzionale del Paese. Dopo l’intesa raggiunta a Skhirat, infatti, la Camera dei rappresentanti di Tobruk non ha mai riconosciuto ufficialmente il Governo di Accordo Nazionale(GNA), che per questo non è riuscito ad ottenere una piena legittimità istituzionale né un’effettiva autorità politica nonostante il supporto delle Nazioni Unite. Nemmeno gli sforzi profusi in occasione di innumerevoli conferenze promosse da vari attori internazionali, Francia e Italia su tutti, sono riusciti ad interrompere lo stallo tra le due parti e a produrre risultati tangibili.
Lo scontro tra le forze di Haftar e quelle del Governo di Accordo Nazionale, che ha fino ad ora causato oltre 150 morti tra i due schieramenti e circa un centinaio tra i civili, ha di fatto cancellato la conferenza nazionale indetta dalle Nazioni Unite per questa settimana, lasciando il futuro del Paese in balia di una nuova escalation armata e sempre più lontano da una soluzione politica che possa gettare le basi per una vera riconciliazione interna. In questo contesto, se inizialmente la mossa di Haftar appariva come un chiaro tentativo di condizionare gli sforzi compiuti dall’inviato ONU Ghassan Salamé, mirando presentarsi in una posizione di forza alla conferenza di Ghadames, la determinazione del leader della Cirenaica a proseguire l’attacco a tripoli conferma la sua forte ambizione politica: dimostrare al popolo libico – e alla comunità internazionale – di essere l’unica figura in grado di riunificare definitivamente il Paese attraverso una spregiudicata politica dei fatti compiuti.
Haftar: chi lo sostiene, e perché?
Sono numerosi gli attori esterni che stanno contribuendo in maniera decisiva al protrarsi del caos nel Paese. Le potenze regionali sembrano sfruttare la complessa situazione libica per guadagnare maggiore influenza nell’area nordafricana; mentre Egitto ed Emirati Arabi Uniti supportano il parlamento di Tobruk e il suo uomo forte, il generale Haftar, Turchia e Qatar sono invece schierati a sostegno delle varie milizie islamiste presenti in Libia, anche all’interno delle formazioni che agiscono in nome del Governo di Tripoli. Proprio ieri, Haftar è stato ricevuto al Cairo da al-Sisi, il quale ha confermato il sostegno egiziano, sia politico che militare, al governo di Tobruk. Lo stesso leader del LNA, peraltro, ha di recente visitato l’Arabia Saudita, dove è probabile che abbia ottenuto ulteriore supporto per un’offensiva che è vista da Riyadh come un’efficace strategia per contenere l’Islam politico ed estendere il proprio influsso nell’area.
Parallelamente, una sostanziale incapacità di incidere sembra invece caratterizzare l’azione degli attori internazionali, primi fra tutti le Nazioni Unite e l’Unione Europea. Quest’ultima, in particolare, rimane vittima di dissidi tra gli Stati membri sulla politica estera per la Libia, che non sembrano destinati a venire meno. In questo contesto, la Francia si è dimostrata particolarmente attiva, nonostante le sue azioni destino forti perplessità. Da una parte, nonostante il sostegno formalmente accordato al GNA di al-Serraj, Parigi continua ad appoggiare il Generale Haftar. Dall’altra, le ultime iniziative politiche promosse dall’Eliseo – come il vertice convocato dal Presidente francese Emmanuel Macron alla fine del maggio 2018 – hanno coinvolto soltanto un numero limitato di rappresentanti politici libici, ben lontano dall’essere rappresentativo del complesso panorama degli attori coinvolti.
Diversa è invece la partita per quanto concerne la Russia e gli Stati Uniti. Al di là della presunta visita di Haftar a Mosca della settimana scorsa, di cui non si hanno riscontri attendibili, La capacità di influenza di Mosca, seppur in maniera ben più circoscritta rispetto al suo impegno siriano, si sta esplicando lungo due direttive: da un lato attraverso il sostegno militare ad Haftar, anche attraverso l’impiego informale di mercenari del Gruppo Wagner; dall’altro, mantenendo aperto il dialogo con il GNA di al-Serraj, come dimostra la recente visita a Mosca di Khaled al-Mishri, presidente dell’High Council e fortemente inviso ad Haftar per i suoi lunghi trascorsi nella Fratellanza Musulmana, invitato dal Parlamento russo per discutere sul presente e sul futuro del suo Paese. Questo duplice approccio al dossier libico, di fatto, conferma l’intenzione russa di rafforzare ulteriormente il proprio ruolo di mediatore nella regione mediorientale. L’attuale successo di questa strategia, peraltro, deriva in buona parte dal sostanziale disinteresse degli Stati Uniti, che si sono limitati a rimarcare il loro appoggio a una soluzione politica all’interno della cornice delle Nazioni Unite. D’altro canto, però, Washington ha mantenuto aperti i canali di dialogo con il governo di Tobruk e lo stesso Haftar in un’ottica di contenimento della minaccia jihadista, che rimane in cima all’agenda nordafricana dell’amministrazione di Donald Trump. La nomina di Richard Norland come nuovo ambasciatore in Libia sembra comunque indicare un velato interesse americano rispetto agli sviluppi libici.
Riconciliazione: la fine di una roadmap già incerta?
Alla luce degli ultimi sviluppi, il processo di riconciliazione nazionale promosso dalle Nazioni Unite, basato sull’ormai naufragata conferenza di Ghadames (14-16 aprile) e sulla scelta di una data ufficiale per le elezioni, sembra di fatto fallito. La decisione di Haftar di proseguire l’assalto alla capitale è stata ulteriormente fomentata dal sostegno di vari attori regionali e dalla sostanziale passività della comunità internazionale, mentre gli sforzi dell’inviato speciale dell’ONU Ghassan Salamé hanno sofferto l’incertezza di un percorso di mediazione politico-diplomatica in cui i pochi successi sono stati oscurati o vanificati da ricorrenti battute d’arresto. Già nella primavera del 2018 e ancor di più con gli scontri alle porte di Tripoli del settembre scorso, infatti, il piano d’azione elaborato da Salamé negli ultimi mesi del 2017, basato su tre punti fondamentali (la revisione del Libyan Political Agreement, l’organizzazione di una conferenza nazionale, e l’indizione di elezioni generali da tenersi nel 2018) risultava compromesso. I vincoli da superare, infatti, si sono dimostrati troppo numerosi e difficili e il processo si è arenato, con le elezioni che, a più di un anno di distanza, non sono state ancora fissate (probabilmente rimandate all’autunno 2019). L’obiettivo di Salamé era quello di mobilitare nuovamente gli attori politici attorno all’obiettivo di nuove elezioni attraverso un processo inclusivo. Il Paese, però, resta oggi in balìa di gruppi di miliziani coalizzati precariamente attorno ad alcune alleanze e leadership, in particolare quelle di Khalifa Haftar e quelle del GNA. Anche la comunità internazionale resta divisa, incapace di esercitare una pressione risolutiva sulle parti in causa, essendo del resto essa stessa per molti versi corresponsabile delle divisioni interne nella misura in cui continua ad alimentare le velleità egemoniche delle varie fazioni. Indicativa dello scarso livello di coordinamento tra attori internazionali è stata la Conferenza di Parigi del maggio 2018, convocata unilateralmente da Parigi.
A repentaglio gli interessi dell’Italia?
Per l’Italia, la Libia rappresenta una priorità di politica estera: la sua instabilità ha infatti ricadute importanti per il nostro Paese, in particolare per quanto concerne i flussi migratori e gli approvvigionamenti energetici. Per questo motivo, lo sforzo dei vari governi italiani nel farsi promotori di un’iniziativa inclusiva e negoziata sulla Libia è sempre stato un impegno coerente alle esigenze del nostro interesse nazionale.
La conferenza di Palermo tenutasi il 12 e 13 novembre scorso rispondeva alla necessità di ritagliare all’Italia un ruolo da protagonista, e non da comprimaria, nella stabilizzazione di un teatro di conflitto che ormai da troppi anni infuria a pochi chilometri dalle nostre coste con incalcolabili costi umani e materiali, in un Paese in cui per di più i nostri interessi economici e politici sono strategici e non immuni dalla competizione con quelli dei numerosi attori stranieri coinvolti a diverso titolo nello scenario libico. ENI, a causa del conflitto e come misura precauzionale, ha annunciato nei giorni scorsi il rimpatrio del suo personale italiano presente in Liba.
In questo contesto, il tentativo italiano – perseguito almeno sin dallo scorso luglio con l’incontro tra Conte e Trump – di riportare gli Stati Uniti dentro la gestione politica della crisi libica era tutt’altro che immotivato. Washington dispone infatti più di altri del leverage necessario per mediare tra gli interessi, spesso divergenti, degli attori internazionali coinvolti nella crisi libica (quelli europei, ma anche la Russia), così come di un’influenza significativa su molti degli attori regionali che hanno agito da battitori liberi fomentando il caos libico (Arabia Saudita, Emirati, Turchia, Qatar).
Tuttavia, l’amministrazione Trump è risultata molto riluttante a impegnarsi in nuovi teatri di crisi internazionali. Malgrado il sostegno espresso da Trump all’iniziativa italiana, il fatto che né lui né il Segretario di Stato Mike Pompeo siano stati presenti a Palermo avrebbe dovuto mettere l’Italia nella condizione di dover procedere nel proprio impegno diplomatico a prescindere dalla reale volontà USA di impegnarsi nella soluzione della crisi libica. Le recenti vicende internazionali, dapprima lo scontro politico tra Italia e Francia sfociato in una vera e propria crisi diplomatica, ma anche probabilmente l’adesione italiana al progetto della “Nuova via della seta” cinese, non sembrano affatto aver favorito un consenso internazionale anche a tutela dei nostri interessi in Libia.
In questo contesto l’Italia deve gestire una fase articolata delle proprie relazioni con gli attori libici. Haftar è sempre stato lontano dagli interessi italiani: fu da subito (2014) sponsorizzato e aiutato da Egitto e Emirati ma poi anche da Russia e Francia, perché si faceva da un lato protettore della Cirenaica dall’altro campione della lotta agli islamisti, mentre aveva un minor peso nella aree di interesse dell’Italia: Fezzan e Tripolitania, dove passano i flussi energetici e i traffici di esseri umani.
Ma il ruolo di Haftar è cresciuto nel tempo proprio grazie al supporto internazionale. Scegliendo, proprio a Palermo, di aprire con più decisione al dialogo con il generale Haftar dopo che altri attori internazionali avevano creato con lui una relazione privilegiata, il governo di Roma rischia ora di generare una caduta di credibilità sia nell’ovest della Libia tra le componenti più vicine a Roma, sia ad est tra quelle che sostengono il generale Haftar, e che hanno interpretato l’apertura italiana come una debolezza o una tacita ammissione dell’impossibilità di sostenere a lungo la propria strategia di supporto al premier Fayez al-Serraj e al governo delle Nazioni Unite. Proprio per questo, l’Italia – dove il 15 aprile si è svolta una consultazione tra il premier Giuseppe Conte e il vice presidente del Consiglio Nazionale Libico Ahmed Maitig – sta cercando di tenere una posizione di equilibrio: ma il rischio che corre è quello di essere percepita come ambigua.
Quali scenari?
L’azione militare di Haftar è un mix tra spregiudicatezza e rischio calcolato. Il generale si è probabilmente fatto forza di un supporto esterno generatosi negli incontri delle ultime settimane e ha chiaramente percepito una luce verde al tentativo di presa della capitale libica Tripoli. Dal 28 febbraio scorso – ovvero dall’incontro concluso ad Abu Dhabi con una stretta di mano tra al Sarraj e Haftar che aveva sancito l’intesa su elezioni entro fine anno – le due parti si sono incontrate con i rispettivi protettori internazionali: il 10 marzo Sarraj è stato a Doha (Qatar) dall’Emiro al-Thani e il 20 ad Ankara dal presidente turco Erdogan. Il 27-28 marzo Haftar si è recato a Riyadh dal re saudita Salman e dal Principe ereditario Mohammed Bin Salman. L’azione mirava a una rapida presa della capitale tramite la defezione di alcune milizie locali e a un supporto della popolazione che però non è stato quello sperato. Ora appare difficile che Haftar possa ripiegare poiché sarebbe una sconfitta politica troppo rilevante. È invece probabile che siamo di fronte a un conflitto di più lunga durata nel quale il supporto (o la mediazione) dei sostenitori internazionali di Haftar sarà decisivo. Inoltre, se la risposta della comunità internazionale, come peraltro sembra evidente, non sarà dura nei suoi confronti, Haftar potrebbe percepire che c’è ancora spazio per continuare, magari con maggior insistenza e violenza, l’azione militare.