Ma nel caos libico e in quello romano sguazza un Emmanuel Macron deciso a fregarci l’ex colonia e le sue ricchezze energetiche. Certo i suoi piani non sembrano procedere per il meglio. Il blocco dei ministeri libici, circondati venerdì notte degli armati della Brigata 301 arrivata in forze da Misurata, è anche causa sua. Dietro il tentato golpe c’è l’esclusione della città e dei suoi leader dal vertice di Parigi convocato, ufficialmente, per fissare la data delle elezioni libiche.
Un summit dietro cui si nasconde l’ennesimo tentativo di scippare all’Italia l’iniziativa politica ed economica in Libia. La data del gran imbroglio è già fissata. Martedì sono attesi in Francia il premier del governo di Tripoli Fayez al Serraj e il generale Khalifa Haftar, signore indiscusso della Cirenaica e nemico giurato dei gruppi islamisti.
Il presidente francese punta però a venir riconosciuto come grande demiurgo dei giochi libici anche dai Fratelli Musulmani e dal Parlamento in esilio a Tobruk. Non a caso ha invitato a Parigi anche Aqila Saleh, presidente del Parlamento di Tobruk, e Khalid al Meshri, presidente dell’Alto Consiglio di Stato, un organo consultivo previsto dagli accordi Onu sulla riconciliazione nazionale. Nello schema di Macron occupano entrambi un ruolo preciso. Saleh, rappresenta quei deputati in esilio a Tobruk poco propensi a cedere tutto il potere ad Haftar. L’arrivo di Khalid Meshri, esponente di rango della Fratellanza Musulmana, è invece un segnale dei mai interrotti rapporti tra la Francia e le milizie jihadiste già utilizzate per scalzare Muhammar Gheddafi.
Ovviamente come tutte le partite libiche anche quella di martedì si basa sull’incertezza più assoluta. Un’eventuale intesa tra l’islamista Meshri e Haftar apparirebbe ancor più miracolosa dell’improvvisa ripresa fisica del generale dato per agonizzante solo un mese fa. Guadagnandosi il consenso, anche solo temporaneo, dei quattro dioscuri libici Macron riuscirebbe però a dribblare in un colpo solo l’Italia, l’Onu, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, ovvero i principali protagonisti degli accordi che hanno portato all’insediamento a Tripoli del premier Fayez Serraj.
Per liberarsi dell’impiccio italiano Macron ha scelto il momento più propizio, ovvero la transizione tra l’epoca di Marco Minniti – indiscusso e combattivo detentore del dossier libico nell’esecutivo Gentiloni – e quella dell’ancora sconosciuto ministro italiano destinato ad ereditarlo.
Ma i tempi sono assai propizi anche su quel fronte Onu dove l’inviato speciale Ghassan Salamè ha appena ammesso l’incapacità di rinnovare gli accordi di riconciliazione tra le fazioni libiche scaduti a fine 2017. Mentre l’America di Trump appare lontana e disinteressata e la diplomazia britannica stenta, in una logica di reciproca diffidenza, a trovare intese con quella italiana Macron sembra, dunque, aver mani libere.
Per salvare il nostro gas, il nostro petrolio e l’ultimo briciolo d’influenza internazionale non ci resta, a questo punto, che confidare nei «niet» d’una Russia decisa, apparentemente, a ricorrere ad un veto in sede Onu pur di bloccare i progetti elettorali a breve termine di Macron. Intanto, però, il principale aiuto ci arriva dalla mossa degli armati di Misurata. Ovvero dalle milizie figlie del caos libico generato nel 2011 da una Francia costretta oggi ad assaporarne le conseguenze.