La crescita mondiale si sta consolidando, per ora in assenza di un ingrediente, invece sempre presente nelle precedenti fasi espansive: l’inflazione. È un’assenza che turba i sonni delle banche centrali, che non riescono ad avvicinarsi agli obiettivi tradizionali di crescita dei prezzi (circa 2% per la Bce).
È come se, senza prezzi in salita, l’uscita dalla recessione non fosse davvero reale e diffusa, ma solo spinta dal vento artificiale della politica monetaria espansiva. Come se l’elusività dell’inflazione fosse la spia di una possibile brutta sorpresa dietro l’angolo. Per questo l’aumento del prezzo del petrolio nelle ultime settimane viene letto con ottimismo: il segno che finalmente la domanda globale sia davvero forte e solida e che presto, attraverso la spinta dei prezzi energetici, anche l’inflazione generale riprenda e la politica monetaria possa tornare alla normalità con tassi di interesse sopra lo zero.
La ragione per cui crescita senza inflazione preoccupa è perché negli ultimi anni la crescita degli investimenti e l’aumento di produttività, soprattutto nelle economie avanzate, sono stati bassi, inferiori al decennio precedente. Dunque, per quanto la domanda aggregata sia in ripresa, l’output complessivo creato dall’economia è rimasto a lungo inferiore al suo livello potenziale, ossia il livello che potrebbe raggiungere se l’economia fosse a pieno regime, se tutte le risorse disponibili fossero occupate. Questo fenomeno, un gap negativo tra output potenziale e reale, si traduce in un tasso di disoccupazione che rimane elevato in diversi Paesi europei, una scarsa pressione sui salari e di conseguenza sui prezzi. Il lavoro dei banchieri centrali a favore della ripresa sarà concluso quando l’output gap sarà finalmente chiuso.
Ben venga dunque l’inversione del prezzo del petrolio, se segnala effettivamente una ripresa diffusa della domanda globale e se questo contribuisce alla risalita generale dei prezzi. Anche perché nel frattempo, nel corso del 2017, la ripresa è stata, soprattutto in Europa più rapida del previsto, si è consolidata a livello globale e per quanto i venti di crescita siano comunque più deboli che nel decennio scorso, il gap di output è gradualmente andato chiudendosi in quasi tutte le economie avanzate.
Sonni tranquilli dunque? Non del tutto. Le previsioni tra il 2018 e il 2020 sono per una crescita globale e nei Paesi avanzati simile o inferiore al 2017. Il paradosso è che proprio la chiusura dell’output gap porta con sé un rallentamento della crescita. Banalmente, è più semplice aumentare la produzione di una fabbrica se non si devono costruire nuovi capannoni e nuovi impianti o inventare nuovi prodotti e processi produttivi. Quando gli impianti sono a pieno regime, la produzione aumenta solo se ne costruiscono dei nuovi o se aumenta la produttività di quelli esistenti. Dunque, ancor più di quello effettivo, l’output di pieno impiego cresce solo se crescono investimenti e produttività. L’ultimo rapporto Global Economic Prospects della Banca Mondiale, appena pubblicato evidenzia come la crescita dell’output potenziale nel periodo post crisi (2013-2017) sia decisamente inferiore al trend di lungo periodo (1998-2017), proprio perché produttività e investimenti sono stati più bassi.
Il raggiungimento del pieno impiego significherà anche una normalizzazione della politica monetaria e una risalita dei tassi di interesse e anche questo rallenterà l’espansione. Infine, rimangono i ben noti rischi geopolitici, che in parte spiegano l’elevato prezzo del petrolio.
In questo scenario è fondamentale che l’Italia, per quanto in spolvero, riesca ad approfittare dell’espansione globale ancora sostenuta del 2018, per accelerare la crescita e non trovarsi in mezzo al guado. L’elevato grado di disoccupazione del nostro Paese indica che l’output gap non è stato ancora chiuso. Siamo ancora sotto al livello di reddito del 2007. Inoltre, abbiamo la zavorra del debito pubblico. La ripresa dei tassi limiterà la capacità del governo di stimolare la crescita. Infine, l’incertezza politica delle prossime elezioni non aiuta.
Per noi, ancor più che per le altre economie avanzate, le parole d’ordine continuano a essere investimenti e produttività.