Si diceva un tempo che le vicende straniere, soprattutto quelle politiche, non interessassero molto gli italiani. Il consiglio che dava un direttore intenzionato a fare giornalismo popolare e vicino alla gente era di relegare le cronache estere in una sola pagina offrendo ai lettori il minimo indispensabile. Non era buon giornalismo (“Avvenire” fa da sempre il contrario), ma c’è qualche verità nel rilevare una disattenzione generale verso le dinamiche mondiali, condivisa a volte pure dalla classe dirigente, che però alla fine presenta il conto. E il conto può essere molto salato.
Lo abbiamo sperimentato con la “sorpresa” del 24 febbraio 2022, quando le Forze armate russe hanno invaso l’Ucraina in violazione del diritto internazionale. Ma dovremmo avere imparato bene, nel contesto globalizzato, quanta cura un Paese come l’Italia, inserito in un sistema di organismi sovrae inter-nazionali, dovrebbe dedicare a ciò che accade oltre i propri confini.
In questi giorni, è risalita la tensione con la Francia a motivo della gestione dei flussi migratori. Una mini-crisi che probabilmente rientrerà presto, eppure ha avuto molta enfasi per la rilevanza che ha assunto (e l’allarme spesso ingiustificato che suscita) il fenomeno (talvolta drammatico) degli spostamenti umani dal Sud al Nord del Pianeta. Non possiamo però dimenticare altre traiettorie potenzialmente divergenti con Parigi. Roma è intenzionata a dire addio alla Via della Seta come collaborazione economica privilegiata con la Cina, per tornare più compiutamente sotto l’“ombrello” americano. Macron è invece volato a Pechino e ha detto che l’Europa non può interessarsi della questione di Taiwan – su cui si stringono le mire di Xi Jinping per una riannessione – e deve rendersi più autonoma strategicamente dagli Stati Uniti.
Francia e Italia sono fondatori e soci di maggioranza con la Germania dell’Unione Europea chiamata oggi più che mai a una compattezza che serve a fronteggiare la sfida portata da Vladimir Putin nel cuore del Vecchio Continente. La risposta finora è stata soddisfacente sia sul piano dell’accoglienza dei profughi sia su quello del sostegno alla resistenza di Kiev. È mancata finora una progettualità politica (al di là dello slancio verso un generoso seppur difficile allargamento a Est) per avviare una soluzione diplomatica al conflitto una volta ristabilita la legalità e avviato il ripristino dell’integrità territoriale della nazione aggredita. E qui il contributo italiano, anche sulla spinta di un attivo movimento pacifista di base, potrebbe essere maggiore e più creativo, anche in tandem con l’incessante impegno per il dialogo del Papa e della Santa Sede.
Non si può quindi eludere quello che rimane il tema principale della nostra politica estera anche in tempi di crisi: il rapporto con la Ue e una maggiore integrazione comunitaria al fine di essere parte propositiva di un soggetto fondamentale sullo scacchiere multipolare che si va configurando. Concentrarsi finalmente sull’Africa, per esempio, è importantissimo, come ben sottolinea il ministro Antonio Tajani in una lunga intervista che pubblichiamo a pagina 8. Ma in che modo potremo contenere da soli l’espansionismo neocoloniale nel Continente delle nuove grandi e medie potenze (dalla Russia alla Cina, dalla Turchia ai più ricchi Paesi arabi) e riguadagnare al fronte occidentale tante nazioni che si sono sentite (e per lo più a ragione) sfruttate e abbandonate?
Soltanto un’iniziativa condivisa a livello dei 27 potrà avere successo. Va in questa direzione un piano come il Global Gateway proposto dalla Commissione europea – di cui si parla ancora poco – per sostenere nelle aree meno sviluppate investimenti nel digitale, nell’energia, nella sanità e nell’istruzione rispettando i più elevati standard sociali e ambientali, in linea con i valori liberal-democratici.
Il nodo, in definitiva, è come coniugare la legittima aspirazione a tutelare gli interessi nazionali e a ottenere al nostro Paese lo spazio e il rilievo che gli spettano con l’efficacia necessaria, la quale non può che provenire dallo schema di convergenza europea (lo si è visto nel caso della pandemia con il Pnrr e della crisi attuale con la rimodulazione degli approvvigionamenti energetici). Non si tratta necessariamente di aderire a un modello istituzionale – è noto che la premier Giorgia Meloni preferisce quello confederale che lascia più potere decisionale agli Stati membri -, bensì di avanzare nella sintonia e nell’azione comune sui fronti più caldi della politica estera, compreso il rapporto fondamentale con gli Stati Uniti, partner chiave a sua volta alla ricerca di nuovi equilibri complessivi. E torniamo così al punto di partenza cronachistico.
La via che sembra più promettente è quella del costruire relazioni cementate e non mettere troppo puntiglio su ogni dossier, del porsi alla testa di progetti ambiziosi, forti delle nostre specificità, con linee chiare e senza tentazioni ricorrenti di usare l’anti-europeismo strumentale come arma di politica interna. Un approccio che non ci fa succubi di decisioni altrui. Al contrario, ci rende participi di una casa comune nella quale avere voce anche per criticare quello che di volta in volta non funziona o è migliorabile. Uno sguardo più attento al mondo risulta allora il primo passo per non chiuderci in un orizzonte angusto e delineare una politica estera che sia vera politica a tutto tondo, ispirata a ideali e principi in linea con la civiltà europea inserita in un mondo plurale e rispettosa di esso.
Andrea Lavazza
[ Avvenire ]