lunedì, 25 Novembre 2024

L’ITALIA INCOMPIUTA MAI ENTRATA IN EUROPA

ROGER ABRAVANEL (CORRIERE DELLA SERA)

L’atteggiamento di gran parte dell’élite italiana e dei media in queste prime settimane del governo Lega-5 Stelle è quello di aspettare e vedere cosa è capace di fare, nel contempo sbeffeggiandolo un po’ sulle ingenuità che commette. I politici dell’opposizione sperano che prima o poi il governo entri in difficoltà e gli elettori si rendano conto di chi hanno eletto e li puniscano, mentre il resto delle élite aspetta di capire se riesce a ritagliarsi un ruolo nel nuovo scenario politico o comunque a continuare la vita di prima. Unanime è la difesa dell’euro, nel senso che da tutti vengono ventilati i disastri dell’uscita dalla moneta unica e dall’Europa, perfino peggiore di Brexit perché il Regno Unito è uscito «solo» dall’Unione.

Rischiano di aspettare a lungo perché Salvini e Di Maio annunceranno in modo roboante la flat tax solo per le imprese, per le quali è già «flat» al 24%, accompagnata dall’ennesimo condono, e si tacerà sullo slittamento della flat tax per le famiglie. Si rinvierà il reddito di cittadinanza fino a quando non si rafforzeranno i centri per l’impiego senza i quali non può funzionare la formula danese «alla terza offerta di lavoro che rifiuti, ti tolgo il reddito di cittadinanza». Ma si annuncerà l’avvio di concorsi per assumere migliaia di persone nei centri per l’impiego, concorsi che però richiederanno anni e comunque non daranno risultati al sud dove non c’è lavoro. Per Salvini non sarà facile mandar via i 600mila irregolari perché manca la macchina di espulsione che esiste in Germania e negli Usa.

Intanto non si sa chi sono (proprio perché irregolari), poi mancano gli accordi con i Paesi di provenienza (l’unico decente era con la Tunisia con cui non si è iniziato molto bene) e gli appositi centri. Infatti se ne espellono 7-8mila all’anno e a questo ritmo ci vorranno 40 anni. Ma non importa, agli italiani sarà annunciato che sarà chiuso un altro porto. Quanto a lungo gli italiani saranno illusi dalle immagini di una ruspa che abbatte un centro rom o di Di Maio che siede con i rider? Non lo sappiamo ma la storia insegna che spesso siamo stati sensibili alle parole roboanti di grandi comunicatori.

Le élite che attendono il governo al varco rischiano di attendere molto e, un giorno, di assistere inermi all’uscita dall’euro, quando i populisti perderanno la scommessa di negoziare con l’Europa un grande sforamento del deficit e nel contempo convincere i mercati della loro credibilità per tenere basso il costo del debito. Il problema è che le élite, a parte abbandonare Renzi perché è «antipatico», non hanno una vera storia alternativa da raccontare agli elettori che lo hanno castigato, perché i partiti populisti si sono appropriati dell’idea del «cambiamento». Tutto ciò si riflette in una difesa dell’euro da parte delle stesse élite che si limitano a dipingere scenari terrificanti nel caso di uscita, ma che appare decisamente poco convinta: «È stato un errore entrarci, ma adesso è troppo tardi per uscirne». Molti continuano infatti a pensare che i problemi della nostra economia sono cominciati con l’euro perché abbiamo smesso di crescere, ignorando che il «miracolo economico italiano» è durato solo negli anni 50 e 60. Successivamente la nostra società e la nostra economia non si sono adeguate a un mondo che cambiava e il Paese ha continuato a crescere solo perché l’economia era drogata dalla spesa pubblica; l’ingresso nell’euro ha solamente bloccato la droga, peraltro quando il debito già cominciava a costare caro.

Anche coloro che questo lo sanno e riconoscono che l’euro, dopo l’ecu e il «serpente monetario», è stato solo una tappa di un processo per essere come la Germania e non come l’Argentina, sono cinicamente convinti che la rivoluzione socio-economica necessaria per meritarsi l’euro da noi è mission impossibile. Risolvere il problema della burocrazia (che vuole dire ripensare diritto amministrativo, funzionamento di tribunali civili e Tar, Corte dei Conti e conferenza Stato-Regioni). Fare rispettare le regole e creare un capitale sociale al sud, dove non è mai nato. Cambiare la mentalità del capitalismo famigliare anti-meritocratico. Avere una stampa e delle tv veramente indipendenti. Combattere seriamente l’evasione fiscale. Fare funzionare i tribunali civili. Avere un po’ di meritocrazia nelle scuole e nelle università.

Se tutto ciò non è successo, non è colpa degli italiani che hanno votato i populisti, ma delle stesse élite che oggi li attendono al varco e che non hanno guidato il cambiamento del Paese per non perdere i propri privilegi. Élite di capitalismo del nord alleate con finanzieri del sud che per anni hanno soffocato in «salotti buoni» la crescita di grandi imprese . Burocrati e giuristi dello Stato che si sono trincerati dietro il diritto amministrativo per uccidere qualunque forma di meritocrazia nella Pubblica amministrazione. Piccoli imprenditori del nord-est che sono stati campioni del «piccolo è bello» per evadere le tasse. Banchieri che distruggevano i risparmi affidatigli facendo credito a chi aveva l’unico merito di tenerli al potere grazie al voto «capitario». Intellettuali, docenti e politici di sinistra che all’insegna dell’egalitarismo hanno impedito la nascita della meritocrazia nella scuola e nell’università privando milioni di giovani dell’ideale che la scuola serve a procurarsi un futuro migliore.

Se l’Italia rischia di uscire dall’euro è anche perché non c’è mai veramente entrata e l’immagine internazionale che abbiamo è giustamente quella dei soliti furbetti che danno un colpo al cerchio (essere come la Germania) e uno alla botte (essere come l’Argentina). Quella parte dell’élite liberal-democratica italiana che è diventata tale solo grazie ai propri meriti e che sino a oggi e stata silenziosa perché il sistema non incoraggiava critiche ha un’ultima possibilità: impegnarsi da subito con grande convinzione nella battaglia per l’euro e per l’Europa, soprattutto per quello che significano, e non per evitare di uscirne, quanto per restarci a pieno merito.

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