Non sappiamo quanto durerà il governo gialloverde guidato da Giuseppe Conte. Sappiamo solo che Matteo Salvini, dopo il trionfo alle elezioni abruzzesi, potrà staccare la spina di Palazzo Chigi quando lo vorrà. Anzi, desta meraviglia che non lo abbia già fatto, visto che da diversi mesi i sondaggi più generosi lo proiettano addirittura verso il 40% dei voti. E siccome nulla è più mobile e volatile di un orientamento elettorale, i più scafati sono soliti ripetere che anche ai leader politici converrebbe, come si dice, battere il ferro quando è caldo.
Non si contano, nella storia, i casi di opportunità elettorali sfumate per colpa delle strategie temporeggiatrici, fondate sul rinvio e sulla speranza di successi plebiscitari a oltranza. Oggi Salvini è l’uomo forte del Paese. Domani, non si sa. L’imponderabile è sempre in agguato. È sufficiente che un assessore regionale si lasci cogliere con le mani nella marmellata perché si eroda un patrimonio di consensi accumulato cavalcando i temi della tolleranza zero su sicurezza e immigrazione.
Si dice. Salvini preferisce tuttora l’alleanza con Di Maio alla possibile ri-unione con Silvio Berlusconi perché paventerebbe il protagonismo e le richieste del Cavaliere in un’eventuale coalizione di governo di centrodestra. Può essere. Il sistema elettorale proporzionale concede all’alleato di minoranza un potere contrattuale (e spesso ricattatorio) che a volte finisce per ribaltare il risultato del voto: chi perde vince, chi vince perde. Di conseguenza, ragionerebbe Salvini, meglio affidarsi al «contratto» con Di Maio. Infatti, finora, lui, Salvini, ne ha ricavato cospicui vantaggi.
Ma solo un inguaribile ottimista potrebbe scommettere su un rapporto inossidabile tra i due vicepremier in carica.
Lega e M5S sono uniti solo dal collante dell’anti-europeismo: non è poco, ma non è neppure molto ai fini di una collaborazione di legislatura. Per il resto i due vanno in disaccordo pressoché su tutto, fatta eccezione forse per il giudizio su Bankitalia. Ergo…
Ma c’è un’altra ragione che, a breve, potrebbe indurre Salvini a togliere, sia pure controvoglia, l’ossigeno a governo e parlamento: la recessione economica. Di calo (produttivo) in calo, si potrebbe profilare all’orizzonte la sagoma della patrimoniale, una stangata che di sicuro non metterebbe di buon umore l’elettorato leghista. E tutto potrebbe accettare Salvini tranne la corresponsabilità di un ulteriore balzello sui risparmi e sulla casa degli italiani.
Al dunque. Se il voto europeo di maggio confermerà il trend del voto abruzzese di domenica scorsa, le probabilità che la legislatura non si interrompa saranno inferiori alle percentuali di salvezza del Chievo, ultimo in classifica nel campionato di calcio di serie A. E non è detto che non si voti addirittura in estate. Salvini forse non farà salti di gioia per la ricomposizione a livello centrale dell’alleanza con Berlusconi, di cui, come già accennato, teme la forza mediatica, ma i mutati rapporti di forza, all’interno del centrodestra, dove è in crescita anche Giorgia Meloni, potrebbero dissolvere le sue più recondite perplessità.
Ovviamente questa prospettiva potrà concretizzarsi solo se la batosta dei Cinque Stelle in Abruzzo avrà un sequel nelle consultazioni di maggio per il parlamento europeo. In caso contrario. Camera e Senato potranno forse vivacchiare un altro anno ancora.
Sembrerà strano, ma il flop abruzzese del M5S va collegato innanzitutto al «reddito di cittadinanza», la misura chiave, quasi identitaria del Movimento grillino. Va collegato al «reddito di cittadinanza» perché la grancassa esclusiva sui 780 euro per i più bisognosi ha finito per circoscrivere il bacino elettorale pentastellato e per acuire la contrarietà di quanti giudicano quel sussidio come un obolo assistenziale che disincentiva il lavoro legale, trasparente e incentiva il lavoro illegale, sommerso. E limitare la propria area di riferimento elettorale non è mai una bella idea, perché significa rinunciare ad allargarsi, significa precludersi di soddisfare le altre esigenze e altri settori dell’opinione pubblica.
Lo stesso ritorno di Alessandro Di Battista nell’agone mediatico non sembra aver prodotto i risultati sperati per il Movimento. Di Battista doveva essere, e così viene ancora ritenuto, il valore aggiunto del M5S. Ma se nemmeno un Rocco Siffredi può consentirsi uno stadio permanente di iperestesia sessuale, neanche un Di Battista può permettersi un altrettato stadio continuo di seduzione catodica. Prima o poi, il fenomeno s’affloscia, e neppure un carico di viagra o, nel caso del dirigente grillino, un camion di spin doctor possono riuscire a rianimarlo, sia su un set cinematografico sia su una piazza televisiva. E poi. A furia di alzare quotidianamente l’ asticella dello scontro (Venezuela, Francia, Bankitalia…) si finisce per osare sempre di più, sino al punto di piombare nella parodia di se stessi. Il che costituisce il pericolo più grave per chi si nutre in ogni momento di comunicazione e di marketing (politico).
Di Maio e Di Battista dovrebbero prendere esempio da Giuseppe Conte. Loro due, le punte di diamante scovate da Grillo, tele-imperversano da mane a sera, ma l’indice di gradimento più alto lo raggiunge il presidente del Consiglio, il cui stile è di gran lunga più sobrio e misurato. Così come non ci si può eccitare ogni giorno, non si può fomentare ogni giorno l’opinione pubblica con una sparata dopo l’altra. Nessun gioco al rialzo può durare all’infinito. Vale anche per la politica, nonostante la fame di sfide infinite ad alto volume alimentate dalla Rete e soprattutto dai social.