C’era preoccupazione per il numero di italiani che sarebbe andato alle urne e per come si sarebbero svolte le operazioni di voto. L’astensionismo temuto non c’è stato e nei seggi, tranne le molte defezioni di scrutatori subito rimpiazzati, tutto è filato liscio. Segno che il virus fa paura ma non al punto da tenere la gente chiusa in casa e da inceppare la macchina statale.
I molti votanti al referendum – quasi il 54% degli aventi diritto, anche se in questo caso non c’era un problema di quorum – si dirà che siano dipesi dall’effetto traino del voto amministrativo (che ha coinvolto regioni importanti) e dallo scontro che nelle ultime settimane si era acceso sull’oggetto della consultazione, col fronte del “No” che era divenuto particolarmente attivo.
Vero, ma deve aver contato molto anche la voglia di partecipare e di prendere parte, nei giorni del nostro addio a un’estate da dimenticare, ad un momento di vita collettivo: un segnale di vita e condivisione proprio mentre si vanno addensando i timori per una seconda ondata di contagi.
Ha vinto il “Sì” in modo schiacciante: quasi il 70%. Avremo dunque molti meno parlamentari e minori spese per l’erario. Una svolta epocale, nel commento dei dirigenti del M5S, che ha fortissimamente voluto questa riforma costituzionale e trascinato dalla sua parte, all’epoca del voto parlamentare, la gran parte delle forze politiche, desiderose di non lasciare ai soli grillini un argomento di propaganda tanto efficace.
In realtà non è stata, quella di ieri, la vittoria di un partito, ma il punto d’arrivo inevitabile di almeno tre decenni di invettive contro il parassitismo della casta. Tagliare, risparmiare, ridurre, mandare a casa… Speriamo che quella italiana non diventi, a furia di ragionare così, una democrazia come quei prodotti cinesi che costano poco ma poi si rompono subito o funzionano male.
In realtà, i fautori del “Sì” hanno sempre detto, per nobilitare la loro battaglia oltre la facile demagogia populista, che la riduzione dei parlamentari era solo il primo passo d’una nuova strategia: il riformismo dei piccoli passi dopo che sono falliti, nei decenni, tutti i tentativi di Grande Riforma. Vedremo ora quel che accadrà. Quale sarà il prossimo passaggio modernizzatore? Una legge elettorale proporzionale necessaria per garantire la governabilità del Paese – ha detto a caldo un raggiante Luigi Di Maio. Nei manuali di scienza politica un simile nesso tra proporzionale e governabilità nessuno l’ha mai argomentato. Speriamo che coloro che si propongono come gli innovatori della nostra Costituzione sappiano inventarsi nei prossimi mesi qualcosa di meglio.
Ovviamente con un simile voto al governo non accadrà nulla, anche se probabilmente nulla sarebbe accaduto anche con un voto ribaltato. Ciò che lo avrebbe tenuto comunque in vita (senza dover ricordare ogni volta che quest’esecutivo è nato soprattutto per scegliere il nuovo Capo dello Stato nel 2022) è la grande partita su fondi europei: miliardi di euro da spendere che servono ovviamente all’Italia per ripartire, ma che politicamente significano anche consenso e clientele. Quale governo vi rinuncerebbe, a costo d’imbullonarsi alle poltrone? A proposito, ora che il voto è passato ci fate sapere quali progetti si vorrebbero realizzare con questi soldi? Il premier Conte può a questo punto rompere il silenzio che s’è imposto nelle ultime settimane: non c’è più da apparire imparziale rispetto alla contesa in corso, c’è da rimboccarsi le maniche per affrontare i problemi del Paese.
Con l’election day si sono volute mischiare mele e patate. Dopo il referendum, tocca dunque commentare le Regionali, per le quali gli italiani hanno votato sulla base di motivazioni ovviamente diverse da quelle utilizzate per il primo. Che notizia interessante da commentare sarebbe stata la Toscana un tempo rossa che cade in mani leghiste. Ma non è accaduto. Il Pd ha resistito (e vinto), grazie alla tenacia di un militante di partito di lungo corso, esattamente come ha fatto, in modo ancor più sorprendente, in Puglia. Al dunque Fitto, a lungo accreditato come un candidato potenzialmente vincente, deve essere parso ai suoi corregionali una figura politicamente troppo usurata. Esattamente come Caldoro in Campania, che ha straperso contro De Luca sancendo, tra le altre cose, la scomparsa ormai pressoché definitiva di Forza Italia dalla scena politica nazionale.
In una fase in cui tutti s’aspettano novità, il deja vu politico non funziona: il centrodestra deve trarne una lezione e inventarsi qualcosa per gli appuntamenti amministrativi del prossimo anno (a partire da Roma). Centrodestra che, pur avendo tenuto la Liguria grazie a un senza partito quale Giovanni Toti, esce oggettivamente deluso da questo pareggio (3 a 3): salvo Giorgia Meloni, che con la vittoria del candidato di Fratelli d’Italia nelle Marche prosegue la sua lenta ma costante ascesa e l’accorto posizionamento di sue pedine in posti vitali.
L’altro vincente, dopo la grande paura che si deve essere preso, è certamente Zingaretti. Che adesso deve però scegliere cosa fare nel rapporto del Pd con M5S: l’alleanza organica tra i due partiti sino a che punto può spingersi, senza che uno dei due sia costretto a rinunciare alla sua identità e ad annullarsi? Sommando i nostri voti avremmo vinto dappertutto – ha detto a caldo Zingaretti. In realtà, nel solo posto dove si sono alleati (in Liguria) ne è nata una sconfitta piuttosto sonora. Dalla sommatoria dei voti che ognuno possiede non è detto che nasca una sintesi politica virtuosa e credibile.
Se Pd e M5S sono la “nuova sinistra” che all’Italia mancava, il cammino che debbono fare prima che la loro collaborazione diventi credibile e vincente è ancora lunga. Il governo Conte II o giallo-rosso, ricordiamolo, non è nato da un progetto, ma da un accidente della storia.
Ha invece poco da godere il M5S, che non a caso ha preferito concentrare i suoi commenti sul buon esito del referendum. Il popolo che li ha premiati accettando il taglio dei parlamentari è lo stesso che li ha duramente penalizzati sul territorio, confermando così quanto poco il movimento sia riuscito a darsi una classe dirigente locale competitiva. Colpa anche della mancanza da mesi di una guida unitaria del partito e di una strategia nazionale a sua volta chiara. Facile immaginare una resa dei conti al vertice nelle prossime settimane: perché qualcuno vinca (Di Maio) qualcuno dovrà perdere (Casaleggio) dal momento che la fase della gestione collegiale, condivisa e a più teste si vede a quali pessimi risultati conduce.
Tutto ciò detto, un dato che colpisce di queste elezioni regionali è quanto a poco servano in realtà i riferimenti ai simboli di partito (e alle loro strategie, ammesso ne abbiano) quando si tratta di ragionare sulle dinamiche della politica italiana. In questo voto, sempre più la differenza l’hanno fatto alcune personalità debordanti e persino difficili da catalogare secondo criteri tradizionali. Le vittorie di Zaia in Veneto, di De Luca in Campania e di Emiliano in Puglia (tre uscenti dimostratisi in grado di aggregare un consenso assai composito e in alcuni casi addirittura plebiscitario) sono, a leggerle con attenzione, l’altra faccia della crisi profonda dei partiti tradizionalmente intesi. Il primo caso è quello di una regione che compattamente si è stretta intorno a chi ha sempre espresso una visione dell’autonomismo prossima alla secessione: lo dimostra il successo della lista personale di Zaia a scapito di quella della Lega.
Negli altri due casi, entrambi meridionali, siamo ad un passo dal caudillismo: uomini forti dai modi spesso spicci e paternalistici, politici dalla demagogia facile, fortemente pragmatici, abituati a gestire vaste clientele sul territorio e reti d’interesse trasversali. Zaia, col suo schiacciante 75%, è stato votato solo dagli elettori di destra? E cosa rende De Luca ed Emiliano due esponenti della sinistra italiana se non il gioco delle convenzioni al quale facciamo finta di credere?
Anche questo sembra dirci questo voto incrociato o doppio, al di là dei risultati che ognuno, come al solito, rigira come gli pare. Ci illudiamo di poter modernizzare con piccoli ritocchi un sistema istituzionale la cui sostanza profonda da un pezzo non corrisponde più alla sua cornice formale. Il tetto del palazzo sta crollando e noi cambiamo la lampadina fulminata al pianerottolo.
ALESSANDRO CAMPI
[ Il Messaggero ]