La notizia che il corso più seguito nei 317 anni di storia dell’università di Yale riguarda la felicità è stata ampiamente diffusa anche dalle testate italiane, che riportano più o meno tutti gli stessi dati, ripresi da un articolo uscito sul New York Times.
Il corso si intitola Psychology and the good life. Conta quasi 1.200 iscritti e l’ha scelto uno studente su quattro. È tenuto dalla psicologa Laurie Santos. Questi gli obiettivi: focalizzarsi sulla psicologia positiva e indurre cambiamenti nel comportamento. Questi gli strumenti, oltre alle lezioni frontali: gli onnipresenti quiz da compilare, i compiti settimanali da eseguire (per esempio, fare gesti di gentilezza, conoscere qualcuno di nuovo), infine un progetto di cambiamento personale, da impostare e portare poi all’esame.
L’eccesso di adesioni ha causato non pochi problemi, e Santos afferma che non terrà più il corso in futuro. Promette però, di pubblicarne i materiali su Coursera, la piattaforma che offre gratuitamente corsi delle maggiori università americane nel formato Mooc (Massive online open courses). Se la questione vi interessa, siete avvertiti.
La notizia merita di essere commentata. Lo lo faccio per punti.
Il primo punto è che all’università uno si aspetterebbe di trovare, magari, un ciclo di lezioni sull’idea di felicità in Platone, Aristotele ed Epicuro, ma non un corso su come vivere una buona vita: qualcosa che rimanda, più che al sapere accademico, ai manuali di autoaiuto che trattano questo tema.
Sono innumerevoli: se cerco tra i libri in vendita su Amazon, trovo oltre quattromila titoli italiani che contengono la parola felicità. In inglese, per happiness escono più di centomila risultati. Dev’essere un mercato che tira. McDonald’s, che si è inventata l’happy meal per i bambini nel remoto 1977, ha davvero precorso i tempi: Time vi racconta l’intera storia, contenuti calorici compresi.
Questo corso sulla felicità, non potrebbe essere una sorta di “mcdonaldizzazione” di una faccenda più complessa?
Il secondo punto è questo: negli Stati Uniti c’è una graduatoria delle università con gli studenti “più felici”: la pubblica la Princeton Review. Yale non è ai primissimi posti, ma nemmeno agli ultimi. La ragione per cui il corso di Santos riscuote tanto successo va forse cercata, più in generale, nel crescente disagio degli studenti americani (descritto da un articolo del New York Times) e non solo americani (nel Regno Unito, The Independent parla apertamente di stato di crisi). Tanti si sentono sotto stress, sovrastati dalla necessità di eccellere in tutto, a ogni costo. Molti si sentono ansiosi e depressi. Si preoccupano per i debiti che dovranno ripagare, e per il futuro.
La perfezione fa male
Eppure proprio Epicuro scrive: “Non il giovane è felice, ma il vecchio che ha vissuto una vita bella; poiché il giovane nel fiore dell’età è mutevole ludibrio della sorte”.
E chissà se Santos cita Epicuro, in qualche momento del suo corso. Magari per chiedersi, e per chiedere all’enorme aula, se il disagio deriva solo dall’ineliminabile fatto anagrafico, o se c’è qualche causa ulteriore.
La risposta, in realtà, è: certo, che c’è.
Ed eccoci al terzo punto. Una meta-analisi gigantesca e recentissima, pubblicata dall’American Psychological Association, ci dice che dal 1989 a oggi tra gli studenti è cresciuta in modo significativo la spinta “a essere perfetti nel corpo, nella mente, nella carriera”. Insomma, in tutto.
È un obiettivo così ambizioso e irrealistico da implicare per forza stress, frustrazione e fin troppe opportunità di fallimento.
La ricerca identifica tre tipi di perfezionismo: autoriferito (nutrire il desiderio irrazionale di essere perfetti), imposto socialmente (l’essere esposti a un eccesso di aspettative da parte del proprio ambiente), eteroriferito (l’assegnare ad altri standard di perfezione non corrispondenti alla realtà). Delle tre forme di perfezionismo, la prima è cresciuta del 10 per cento, la terza del 16 per cento, la seconda di un impressionante 33 per cento.
Le risposte alla domanda “perché mai bisognerebbe ambire a essere perfetti?” sono molte, e abbastanza ovvie: per trovare più facilmente lavoro. Per avere una buona carriera. Per essere apprezzati (e qui c’entra anche la pressione esercitata dai social media)… In sostanza, per “essere felici”.
È un bel paradosso: rendersi più infelici avendo l’obiettivo di essere più felici (anzi: “perfettamente” felici).
Un’idea astratta e assoluta
Ed eccoci all’ultimo punto. Diverse ricerche dimostrano come le persone che hanno la propria felicità come obiettivo tendono, mediamente, a essere meno felici di altre. A dirlo è Susan David, psicologa presso la Harvard Medical School.
David, letteralmente, parla di “ossessione della felicità”, e di inflazione di metodi per sviluppare il pensiero positivo. Attitudine che porta a ignorare ansie, paure, rabbia. E che in fin dei conti disabitua a riconoscerle e a gestirle, e quindi impedisce di reagire in modo resiliente.
Per non parlare del fatto che sforzarsi di non avere pensieri negativi non fa che ingigantirli. È il classico effetto “non pensare all’elefante”. “Ho di recente condotto una ricerca che ha coinvolto 70mila persone”, dice David in una recente Ted Talk, “e un terzo (dico: un terzo!) si fa problemi perché sperimenta emozioni negative, o addirittura cerca di cancellarle”.
Il fatto è che “felicità” è, oltretutto, un’idea astratta e assoluta. Cercare di avvicinarsi è un po’ come proporsi di riuscire a toccare l’orizzonte. Tra l’altro, la felicità è una meta, oltre che impossibile da raggiungere, così egoistica da disconnetterci dagli altri, facendoci sentire (dati di ricerca lo dimostrano) più soli. Quindi, ancora più infelici.
Forse, la soluzione sarebbe progettare contesti (universitari, e non solo) che non obblighino i giovani a sognare di essere perfetti secondo criteri fisici e mentali standardizzati e omologanti, ma li sproni a scoprire e a coltivare, con meraviglia e gratitudine (e una dose di felicità) i loro migliori talenti individuali. Ma, temo, un singolo corso, anche se a Yale, non basterebbe, e bisognerebbe ripensare l’intero sistema.